La settima passata verrà ricordata per la stretta repressiva sulle proteste universitarie che nel frattempo si espandono e continuano a contagiare atenei in America e oltre (dal Canada al Regno unito alla Francia, al Messico).  Con la fine del semestre e le cerimonie di laurea dietro l’angolo, molti amministratori hanno fatto intervenire le forze dell’ordine in dozzine di campus, facendo schizzare a ben oltre 2000 gli arresti complessivamente effettuati nel paese ad oggi. (Alcune  università, invece – come la North Western, Rutgers, Brown e UC Riverside – sono scese a compromessi con gli studenti, patteggiando la fine delle occupazioni in cambio della revisione di tutti gli investimenti nell’otica di un possibile disinvestimento)

La reazione scomposta denota la pressione politica del “partito della guerra” ed il panico istituzionale che sta suscitando il movimento trasversale e transnazionale per la pace in Palestina. Le accuse di violenza e antisemitismo mosse ai manifestanti sono del tutto scollate dalla realtà e di fatto proporzionali alla solidarietà fra studenti ebrei e palestinesi che negli accampamenti manifestano fianco a fiano per la pace – una grave minaccia per i fautori delle soluzioni armate.

Emblematico in questo senso, i fatti di UCLA, dove il campo di pacifisti è stato assalito da squadre di picchiatori filo israeliani che hanno infierito per quattro ore sugli studenti prima che le forze dell’ordine intervenissero. Quando infine lo hanno fatto, non è stato per fermare le squadracce sioniste (tranquillamente dileguatesi) ma per caricare le vittime, sgomberare il campo e fare quasi duecento arresti.

La questione “morale” sollevata dai ragazzi nel silenzio generale si pone tuttavia come ineludibile, e presagisce, ovviamente, conseguenze sulle elezioni, danneggiando specificamente le prospettive di Biden il cui pilatesco cerchiobottismo (biasimo di Netanyahu ma avanti tutta con le forniture di armi necessarie alla strage) tradisce un’incapacità di adattarsi ad un’opinione pubblica che per la prima volta registra maggioranze contrarie all’operato di Israele.

Mercoledì il presidente si è infine pronunciato, con un micro discorso di tre minuti in cui ha proferito alcune banalità sulla necessità di mediare libertà di dissenso col rispetto dell’ordine pubblico, aggiungendo che le proteste non influiranno comunque sulle sue decisioni. Eppure queste costituiscono senza dubbio l’elemento di maggiore pressione su Biden per cercare una soluzione al conflitto. È sempre più chiaro infatti che la pratica studenti e Palestina, potrebbe rivelarsi kryptonite sul fianco progressista della coalizione di cui ha bisogno per sperare di essere rieletto.

(Fra gli sviluppi più preoccupanti prodotti dalla psicosi anti-studenti vi è stata, la scorsa settimana, l’approvazione alla Camera del “decreto antisemitismo,” una legge che vieterebbe le espressioni di solidarietà palestinese come implicitamente antisemite – un’eccezionale dipartita, in questo paese, dalla storica dottrina costituzionale della libera espressione.)

Nel frattempo, la repressione delle proteste ha avuto l’effetto di oscurare i titoli sul processo che in condizioni normali avrebbero potuto essere catastrofici per Trump. L’immagine pubblica dell’ex presidente è stata ridimensionata da fiero e tronfio candidato del politicamente scorretto a quella di imputato avanti con gli anni che si assopisce nel tribunale di Manhattan, lamentandosi della temperatura eccessivamente fredda.

Al termine di due settimane di dibattimento, diversi testimoni hanno dipinto un quadro poco lusinghiero di un allora aspirante candidato che nel 2015 che dopo essere stato beccato in un fuori onda in cui affermava di poter mettere le mani addosso a qualsiasi femmina volesse in quanto celebrità, dispose che i suoi legali pagassero per mettere tacere, appunto, due donne, fra cui la porno star Stormy Daniels. Non è certo che il processo danneggi il redivivo candidato i cui sostenitori furono dopotutto felici di votarlo all’epoca dei fatti scandalosi, ma Trump è di sicuro grato alla guerra e il fatto che questa pata bollente dirotti i riflettori dalla sua procedura penale.

A sei mesi esatti dagli scrutini di novembre, la situazione può definirsi caotica e piena di imponderabili che potrebbero influire imprevedibilmente su di un elettorato in cui sembrano convivere fanatismo e disaffezione per due candidati sgraditi, con in ballo, potenzialmente le sorti della democrazia americana.

In questo quadro paradossale il candidato repubblicano in pectore che passa i giorni feriali in tribunale, nel fine settimana ha ospitato il summit primaverile del partito repubblicano nella sua reggia kitsch di Mar A Lago, dove sono sfilati alcuni pretendenti al posto di vice sul ticket di Trump. Fra i nomi papabili, il senatore “cubano’ della Florida Marco Rubio, la hawaiiana ex democratica Tulsi Gabbard, l’ultrareazionario Vivek Ramaswamy , un paio di pretendenti afro americani Tim Scott e Byron Donalds, l’ultra Maga dell’Ohio JD Vance e la newyorchese Elise Stefanik. Trump sembra intenzionato comunque a prolungare il più possibile il processo di selezione allungandolo in una specie di reality in cui i concorrenti competono per dimostrare la più completa lealtà.

L’assoluta devozione al capo risalta d’altronde come requisito principale per partecipare ad una possibile nuova amministrazione Trump, anche dall’intervista che Trump ha rilasciato questa settimana alla rivista Time. Nel colloquio Trump ha confermato le caratteristiche che avrebbe un suo secondo governo: innanzitutto assenza di progetto politico coerente o competenza geopolitica oltre alle vaghe massime populiste ed auto glorificanti, ma con l’aggiunta di una nuova determinazione ad imporre la propria volontà su Washington. Rispecchiando ciò che è già trapelato nel “Project 2025,” il documento programmatico stilato da un consorzio di strateghi conservatori, la “prossima volta” Trump promette di muoversi più decisamente per appropriarsi delle leve del potere.

Fra i passi specificamente citati: grazia per (gli 800 circa) condannati per l’insurrezione del 6 gennaio, discrezione assoluta agli stati per le normative sull’aborto (compreso monitoraggio statale del gravidanze), mobilitazione della guardia nazionale in stati “inadempienti”, deportazione di massa degli (11 milioni) di immigrati non autorizzati, finanziamenti  trattenuti in dalla Nato  “finché gli altri non pagano”  e generale celodurismo per riportare l’America ad una “antica grandezza.” Spicca, nel consueto medley neo autoritario la promessa già fatta nel 2020 di accettare il responso delle urne solo in caso di vittoria (che il contrario ammonterebbe a prova di brogli). Un’anticipazione insomma di una presidenza carburata dal rancore accumulato negli ultimi quattro anni e di rappresaglie contro una schiera di nemici che si è ingrossata a dismisura –un modello, in pratica,  per le presidenze imperiali e premierati forti che sono progetto comune delle destre globali.

Sembrano cioè prefigurarsi, in questa primavera già convulsa, i presupposti di una instabilità che minaccia di riportare gli Stati uniti sull’orlo del baratro.