Troppo poco e troppo lento. Quando si chiede ai romagnoli un parere sulla ripartenza post-alluvione, questa è la risposta ricorrente. Da quel maggio del 2023 in cui piogge eccezionali hanno devastato l’Emilia-Romagna è passato un anno, ma i segni della tragedia ci sono ancora tutti. E, passate le fasi della paura e dell’orgoglio, nei territori si respira amarezza.

Sulla causa di quell’evento meteorologico estremo si dibatte ancora. Un pre-print del World Weather Attribution, ovvero uno studio non sottoposto a revisione, stimava il tempo di ritorno di un fenomeno del genere in 200 anni, e non trovava prove della correlazione col riscaldamento globale. Una conclusione che non ha convinto tutti: un gruppo di climatologi italiani pubblicò un articolo in cui si criticavano alcune scelte metodologiche degli autori e si chiedeva di approfondire ulteriormente l’eventuale legame con la crisi climatica.

Di certo c’è la drammaticità di quei giorni. Le prime piogge arrivarono il 3 maggio. A Faenza si allaga un intero quartiere, a Bologna un canale erutta, a Castelbolognese, vicino Ravenna, c’è la prima vittima. Dopo due settimane le perturbazioni si concentrano di nuovo sulle stesse zone, ma stavolta più a lungo. Faenza, Forlì, Cesena, Ravenna: in pianura si allaga tutto, l’Appennino si riempie di frane. In quei giorni i video che arrivano da piccoli centri come Lugo o Sant’Agata sul Santerno occupano le aperture dei tg. Per settimane i volontari spalano il fango in scenari da film, con nuvole di terra secca che vorticano a pochi metri dal suolo e masserizie ai lati delle strade. Il bilancio alla fine è di diciassette morti e oltre dieci miliardi di danni.

«Nel faentino abbiamo avuto uno dei mix di effetti peggiori: le frane hanno accumulato terra, le alluvioni la hanno riversata in città. Solo a Faenza il 40% della popolazione è stata coinvolta dalle esondazioni, 4.000 famiglie hanno dovuto ricorrere a ristori immediati e 2.000 sono state sfollate. Ancora oggi circa 1.000 persone vivono fuori dalle loro abitazioni». A parlare è Massimo Isola, sindaco di Faenza. «La ricostruzione è fatta di due storie diverse. La prima è quella dei beni pubblici, sui quali siamo riusciti a ottenere risultati importanti. Poi c’è il settore privato, che non sta funzionando. I fondi stanziati dal Commissario non coprono i beni mobili – frigo, lavatrice, mobilio – che in un’alluvione sono il grosso dei danni». Quasi tutti i sindaci della Romagna sembrano pensarla allo stesso modo. «C’è tantissimo da fare. Il massimale per i risarcimenti a imprese e condomini è assolutamente inadeguato» spiega Enzo Lattuca, primo cittadino di Cesena. Gli fa eco Michele de Pascale, che governa Ravenna. «La passerella del governo non ha messo soldi sugli indennizzi, migliaia di persone e imprese aspettano ancora i soldi. Sulla ricostruzione dei beni pubblici i fondi sono stati stanziati, ma si è deciso di delegare tutto alle amministrazioni locali. Una città riesce a gestirli, ma pensate ai piccoli centri, che con pochi dipendenti devono affrontare magari centinaia di frane». Il Comune di Forlì – di centrodestra a differenza dei precedenti – sembra meno critico: «Per quanto riguarda i rimborsi alle nostre famiglie, la struttura commissariale sta erogando in queste settimane decine di acconti, dando una risposta concreta in termini di risorse ai privati colpiti dalla tragedia di maggio». Ma anche dalla città amministrata da Gian Luca Zattini si chiede di sburocratizzare la richieste e, sopratutto, di includere in qualche modo i beni mobili nei rimborsi.

«Siamo arrabbiati, le promesse di Meloni non sono state mantenute» spiega Maria Giorgini, segretaria generale Camera del Lavoro Cgil di Forlì. «La gente, che ha dovuto spalarsi da sola il fango, non ha la liquidità per rimettersi a posto casa propria». La scelta del governo di nominare un commissario esterno, il generale Figliuolo, non convince. «La sua nomina è stata una scelta sbagliata, servono le competenze del territorio». Anche Nadine Finke, portavoce di Fridays For Future Forlì, è critica. «La ricostruzione tarda, e sul prevenire si fa poco. L’unico tema presente è la pulizia degli argini, che è importante, ma di certo non l’unica causa. Il governo spende in armi, non in adattamento e mitigazione – ciò che ci salverebbe da future alluvioni».