Nel Pantheon ideale delle immagini rivoluzionarie, le fotografie moderniste di Tina Modotti occupano senza dubbio un posto d’onore. Tra Eugène Delacroix e Robert Capa, le immagini di Modotti hanno rapidamente incrociato e incarnato alcuni tra i momenti forti della storia del ventesimo secolo: il grande flusso migratorio verso gli Stati Uniti, la nascita del cinema muto, i movimenti agrari e post-rivoluzionari in Messico, la nascita del muralismo politico, la rivendicazione delle culture indigene messicane, l’emancipazione della donna nella società, l’opposizione tra trotzkisti e stalinisti dopo la rivoluzione del 1917, la guerra civile spagnola. Il tutto è condensato in una serie di scatti divenuti ormai iconici, realizzati nell’arco di soli dieci anni, tra il 1920 e il 1930; questi hanno contribuito a fare di Tina Modotti una delle maggiori fotografe della sua generazione, insieme ad altre figure pionieristiche quali Margaret Bourke-White e Dorothea Lange, ma soprattutto una delle icone della fotografia rivoluzionaria del Novecento.
All’opera e alla vita di questa grande artista, è dedicata la mostra parigina Tina Modotti. L’œil de la révolution, presentata fino al 12 maggio a Parigi, Jeu de Paume (catalogo Jeu de Paume/Flammarion). Curata da Isabel Tejeda Martin, specialista della fotografia femminile del XX secolo, l’esposizione si inserisce nella ricca programmazione dell’istituzione francese, da sempre interamente consacrata alla fotografia.

Madre con bambino a Tehuantepec, 1929, New York, Throckmorton Fine Art gallery

Attraverso un percorso cronologico, biografico e tematico, e un nucleo di tirature eccezionalmente d’epoca, la mostra ci accompagna lungo lo straordinario quanto improbabile cammino che ha condotto la giovane friulana verso la rivelazione di uno dei media più potenti d’espressione, quello della fotografia. Nata a Udine nel 1896 in una famiglia modesta, Tina capisce molto presto il senso del lavoro e del sacrificio. Il padre meccanico migra regolarmente in Austria con la famiglia, in cerca di lavoro. Poi, come molti in quel periodo, parte per l’America in cerca di fortuna. È il 1905. Non tornerà più.

La giovane Tina è l’unica a lavorare e a mantenere la famiglia. Poi, improvvisamente, nel 1913, la decisione di raggiungerlo. A sedici anni parte da sola su un bastimento che dopo mesi di navigazione la condurrà a San Francisco, dove si trova una grande comunità italiana. Il padre lo ritroverà ma con una nuova famiglia. Un capitolo si chiude e inizia la prima metamorfosi di Tina.

Trova lavoro come operaia, praticando nel tempo libero il teatro amatoriale. Qui conosce «Robo», un dandy francese che diventa il suo primo compagno, con il quale decide di trasferirsi a Los Angeles, città culturalmente molto stimolante in quel periodo. Tina è bella, di una bellezza mediterranea, che non passa inosservata nella capitale del cinema muto. La ritroviamo infatti ingaggiata in almeno tre film, nei quali interpreta il ruolo stereotipato della donna latino-americana. Posa anche come modella per la moda e per qualche fotografo, tra cui Edward Weston, una della figure maggiori, insieme ad Alfred Stieglitz, della fotografia formalista americana.

Tina è sempre più attratta dagli aspetti tecnici della fotografia e progressivamente diventa sua allieva. Libera e anticonformista, decide di recarsi, con il suo mentore, in Messico per un progetto artistico e umano impensabile. Grazie alla produzione di ritratti destinati essenzialmente alla borghesia, i due riescono a finanziarsi un lungo periplo, che li porterà in giro per almeno tre anni. Il risultato è un infinito reportage a quattro mani sul paese, nel quale progressivamente si distinguono due visioni del mondo e della fotografia.

Se per Weston i paesaggi infiniti messicani non sono altro che il pretesto per uno studio maniacale sulla forma e la luce, per Tina la fotografia finisce per diventare uno straordinario rivelatore del mondo dall’altra parte dell’obiettivo. È il 1920 e il Messico è in piena fase post-rivoluzionaria. Così alla perfezione formale appresa da Weston comincia ad aggiungere nei propri scatti una sensibilità tutta personale verso gli esseri umani e le ingiustizie sociali. Nel 1926 Weston rientra negli Stati Uniti, Tina rimane, attratta dal rinascimento culturale del paese.

Incontra i muralisti Rivera e Orozco, di cui documenta il lavoro, si avvicina a Frida Kahlo, frequenta Majakovskij, in Messico nel ’25, collabora con l’antropologa Anita Brenner per il celebre studio sulle culture precolombiane Gli idoli dietro gli altari. Grazie all’uso di una macchina Graflex, più leggera, scende in strada e fotografa quello che vede. I formati sono piccoli ma la forza espressiva di quelle immagini è di grande impatto. Evitando la posa, Tina fotografa le persone nella loro quotidianità: i venditori di tortillas, le lavandaie, i portatori di mais, gli orfani che giocano nelle strade polverose.

Nel 1927 si iscrive al partito comunista messicano e collabora come traduttrice e fotografa con il quotidiano El machete. Ma la fotografa capisce molto rapidamente che il realismo formalistico del medium da lei prescelto non rappresenta, né può rappresentare, la verità assoluta. Del resto, già nel 1855 Gustave Courbet, vate del Realismo, parlando della propria pittura evocava una forma di «allegoria reale», inscindibile dalla complessità del mondo, anche là dove la tecnica ne permette la sua riproduzione fedel. Modotti lo sa, e perché la propria arte possa essere sincera, quindi credibile, intraprende quella che per lei è la sola via possibile: la militanza. Ma come trovare un linguaggio visivo comprensibile per il popolo senza tradire i propri principi estetici? Nascono così le immagini forse più celebri dell’artista, a carattere simbolico e allegorico: Manico di chitarra, cartuccera e mais, Donna con la bandiera. L’occhio di Tina è un occhio che pensa e che fa pensare.

Nel suo manifesto fotografico, pubblicato nel 1929, Modotti rifiuta l’esistenza di un’immaginazione creativa individuale e dichiara di non considerarsi «un’artista» ma «una fotografa», mestiere più vicino ai suoi ideali proletari. Ma nel 1930 è espulsa dal paese, accusata ingiustamente di aver partecipato a un attentato contro il presidente Rubio. A causa delle sue convinzioni politiche non può più rientrare né negli Stati Uniti né nell’Italia fascista. Da rifugiata politica si stabilisce prima a Berlino, poi in Unione Sovietica, dove avrà tuttavia difficoltà a ritrovare una vera collocazione artistica. Si dedica totalmente al Soccorso rosso internazionale, soprattutto in Spagna, dove viene inviata dal partito comunista sovietico.

A partire da questo momento non esistono più notizie relative a una sua pratica fotografica professionale. Al termine della guerra spagnola, Tina Modotti verrà accolta nuovamente in Messico, dove vivrà nell’ombra i suoi ultimi anni accanto al compagno, il comunista italiano Vittorio Vidali. Muore prematuramente nel 1942, a soli quarantasei anni, di una crisi cardiaca (i sospetti di un avvelenamento non saranno mai confermati).

Lo scoppio del conflitto mondiale travolgerà rapidamente la sua memoria e la sua opera. Bisognerà aspettare gli anni settanta e la creazione, su iniziativa di Vidali, di una fondazione a lei dedicata, per cominciare a studiare e a esporre nuovamente, fuori dal mito e dalle leggende, l’«occhio» di Tina, indubbiamente e dichiaratamente di parte, ma proprio per questo, come testimonia nel modo più rigoroso e partecipato la mostra parigina, onesto.