E’ stato contemporaneamente un critico letterario e uno scrittore (non sempre le due funzioni coincidono) ma all’origine soprattutto un bibliofilo, Giuseppe Marcenaro, mancato nella sua Genova ottantunenne lo scorso 1° febbraio.

L’amore per i libri (con tutto ciò che a esso si lega, cioè il gusto della scoperta, l’orgoglio del possesso, il privilegio della conoscenza) doveva essere stato in lui primordiale e pari, si direbbe a specchio, al gesto istintivo dello scrivere, che è mimetico e insieme emulativo: per Marcenaro, infatti, le notazioni a margine di un libro (la postilla, il dettaglio bio-bibliografico, le considerazioni personali a latere) si impossessavano della pagina fino a consistere per interna gemmazione e, via via, separarsene in un decorso di progressiva reciproca autonomia.

Non inganni la perfetta stilizzazione e la raffinatezza estrema della sua pagina, perché Marcenaro si occupava di libri come di entità vive e dotate di terza dimensione, come fossero individui vivi fra storia e natura, dunque collocati in una frazione irripetibile nello spazio e nel tempo. Marcenaro non era affatto – come pure a qualcuno è potuto sembrare – un prosatore d’arte (perché dei tradizionali elzeviri semmai commemorava la nettezza artigianale, l’eleganza) ma, al contrario, era un saggista nell’accezione piena e storica del termine. Quanto poi allo stile, amava sempre ricordare l’affermazione di un suo maestro secondo cui «la letteratura nutre la propria ragion d’essere soltanto nello stile». E di libri, di individui, di incontri e di destini tratta ineluttabilmente il libro suo più arduo, consegnato all’editore in punto di morte con un sottotitolo che retrospettivamente fa rabbrividire, Sciarada Vivere con le ombre sulla soglia dell’Ade (il Saggiatore «La Cultura», pp. 232, € 18,00).

Che sia un libro suo e inconfondibile lo rivela già il gesto di sfogliarlo (aprendo su capitoli brevi, su calcolate citazioni, su inserzioni fotografiche) ma la ricerca di un oroscopo intellettuale, l’escussione cavillosa di una sequenza bibliografica che decifri o anche solamente occhieggi a un destino è stavolta portata su di sé ed è condotta fino in fondo in prima persona. Perciò la sola differenza tra, per esempio, Cimiteri (2008), Testamenti (2012) o la recente trilogia proposta dal Saggiatore fra il ’17 e il ’19 (Scarti, Dissipazioni, Passaporti), insomma fra i suoi titoli più riconoscibili e Sciarada, la differenza sta nel fatto che quest’ultimo testo è in realtà una dissimulata autobiografia. Dà ritmo al libro l’avvicendarsi dei luoghi e delle connesse figure personali di riferimento. Lo sguardo è di scorcio e oggetti, persone, pagine vi affiorano all’improvviso per impossessarsi del ricordo e virarlo in un colore indelebile dove l’intelligenza e la passione si combinano nel sogno di un mite umanesimo: è qui che lo iato fra i libri e la vita tende a restringersi e, alla lunga, a sparire.

Nella distanza più remota sorge Albaro, sole e mare nella endiadi di una «accecata infanzia», poi c’è una Roma da tardo dopoguerra con ancora visibili le tracce di Leopardi e Stendhal su cui aleggiano, intatti, i versi belli e difficili, persino imprendibili, di Giorgio Vigolo. Più vicina e incombente, quasi un doppio orientale della Genova nativa, è Trieste con le vestigia di colui che funge, in Sciarada, da vettore e da traccia itinerante della narrazione: quel Bobi Bazlen (il demiurgo senza opere, lo scrittore senza libri, il magico suggeritore dei libri altrui) che Marcenaro insegue nello stesso momento in cui avverte di esserne inseguito a ogni tappa del percorso. Bazlen a un certo punto viene incorporato e ricompare nelle frazioni successive del racconto come un segnavia al cui nome si legano infatti tutti gli altri deuteragonisti che costellano la vita del saggista genovese, da Eugenio Montale (recuperato per il tramite di due muse giovanili, Esterina e Gerti, indimenticabili) al triestino Giorgio Voghera, chiuso nella sua perpetua dissimulazione di «illuminista scettico», da Carlo Bo, sempre sentito alla stregua di un maestro, a Clelia Sbarbaro, la sorella di Camillo il poeta di Pianissimo, un altro destino compulsato per via di levare.

Ma centrale e anzi radiante è in Sciarada la figura cui peraltro Marcenaro aveva dedicato uno dei libri più suoi e più belli, Un’amica di Montale. Vita di Lucia Rodocanachi (Camunia 1991). È lei la celebre e per lungo tempo anonima négresse inconnue che fra gli anni trenta e quaranta redige di fatto le versioni da scrittori angloamericani poi firmate, per esempio, da Montale e Vittorini; ed è ancora lei Lucia Morpurgo (moglie del pittore greco Paolo Rodocanachi) nella sua villetta di Arenzano persa tra gli ulivi a combinare un cenacolo di autori, per lo più antifascisti, che vanno da Sbarbaro allo stesso Montale, da Angelo Barile a un Carlo Emilio Gadda, il quale sta scrivendo La cognizione del dolore ed è tanto affezionato all’arte culinaria di Lucia da offrirsi in più di una occasione quale paying guest. Nato quasi casualmente (Lucia è una restauratrice e come tale Marcenaro la contatta) il loro rapporto dura un decennio esatto, fino al 1978, anno della scomparsa di lei a settantasette anni. Il loro è un rapporto complesso e a suo modo spinoso, si danno del lei, distanza raddoppiata dal fatto che Lucia è la depositaria di un autentico tesoro letterario, mai prodigato a piene mani ma da lei sempre centellinato secondo una sottile imperscrutabile strategia, mentre Giuseppe al momento dell’incontro è un giovane brillante giornalista ma uno scrittore ancora solamente in pectore. In realtà, nella memoria dell’autore, Lucia occupa una posizione opposta e complementare a quella di Bobi Bazlen perché anche lei, pure così precisa, puntuale nel rapporto fino a essere incombente, in effetti pare sempre defilarsi in un suo spazio di riguardo, invalicabile.

Se Bazlen è l’uomo della intelligenza che ammicca e si eclissa, Lucia è viceversa la donna di una passione segreta e intransitiva, mai resa totalmente esplicita: «Viveva sempre in tensione, spinta da una misteriosa forza che la allontanava da quanto amava». Perciò lo scrittore si dà lo scopo di dare nome e senso all’implicito di questo stesso amore e, d’altro lato, di rintracciare nello spazio e nel tempo i punti dove si è inabissata, pari a una meteorite, la leggendaria intelligenza di Bazlen.

Interessa a Marcenaro, sempre, la figura di senso che innerva la pagina di uno scrittore, il momento in cui qualcosa lievita e diviene, alla lettera, un oroscopo, un destino. Nel caso di Sciarada l’esercizio (come in certi autoritratti eseguiti allo specchio) si rovescia in prima persona, per una necessaria simmetria che garantisce il focus autobiografico. Ancora una volta vi si assommano i luoghi, gli uomini, i libri. Sciarada chiude con una epigrafe, una lapide vera e propria, che vale una dichiarazione di poetica: «L’originalità è qualcosa di diverso / dall’ostinazione senza fondamento. / Un vivente può appagarsi / nel non esistente. / Le parvenze nutrono la scrittura.». Cioè i lemuri, le tracce dileguanti che Marcenaro intercettava nel suo Montale o appunto, più semplicemente, le «parvenze» avrebbe detto sorridendo e tirando dal sigaro mentre in schietto genovese avrebbe aggiunto sottovoce, quasi per un dolce scongiuro davanti alla vita e ai libri che le appartengono… maniman… «non si sa mai»… caro Giuseppe.