Ieri in Parlamento è stato un piccolo tripudio per «il manifesto». C’è stata la presunta protesta leghista contro gli inciuci renzian-berlusconiani, con Calderoli che issava la nostra prima pagina del 1983, «Non moriremo democristiani», il bel titolo fatto da Luigi Pintor; poi la Boldrini che ha allontanato leghisti e prime pagine, invece avrebbe fatto bene a cacciare i leghisti e a tenere in aula «il manifesto».

Sì, perché di lì a poco i deputati di Sel – e non solo – hanno cominciato, nella prima seduta destinata all’elezione del nuovo presidente della Repubblica, dopo l’uscita di scena del compact-presidente Napolitano, a votare per la nostra Luciana Castellina. Giusto.

Invece di votare scheda bianca, stavolta è stata scheda rossa, una bella bandiera issata per 37 volte. La votazione purtroppo è simbolica, ma c’è poco da scherzare. E poi metti che tra una recita e l’altra qualcuno nel dispositivo sbaglia e allora esce davvero Luciana Castellina?

Purtroppo non accadrà come nell’estate del 1978 quando proprio il drappello dei deputati dell’allora Pdup propose il nome fino a quel momento minoritario di Sandro Pertini e alla fine fu una valanga di «Pertini presidente».

Fondatrice con Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Lucio Magri prima dell’esperienza della rivista «Il Manifesto», che fu poi causa della radiazione dal Pci, poi protagonisti della nascita di questo giornale.

Lo meriterebbe eccome Luciana Castellina, donna, ex deputata, comunista sempre in prima fila, anche con la parola e la scrittura. Capace di attraversare le stagioni politiche e le capitali del mondo come fosse a casa, cosmopolita prima che la globalizzazione fosse realtà.

Con lei il Quirinale sarebbe un avamposto della nuova Europa, una casa aperta, attenta e ospitale verso gli ultimi e i bisogni della società.

Lo meriterebbe davvero, sarebbe l’immagine dell’Italia che ha lottato, che non ha smesso di farlo. Ma che non ha vinto. E allora…