Venticinque anni fa, il 4 giugno del 1989, la Polonia andava alle urne. Elezioni politiche. Il voto sancì la fine della stagione del socialismo realizzato e l’inizio di quella democratica. Una tornata storicamente decisiva, dunque. Ma tecnicamente anomala. Il voto fu libero, senza esserlo del tutto. Metteva in palio cento seggi su cento al Senato. Tuttavia al Sejm, la camera bassa, il 65% degli scranni fu riservato d’ufficio al Partito operaio unificato polacco (Pzpr) e alle sue formazioni satelliti.

Il carattere spurio di quelle elezioni era il frutto degli accordi scaturiti due mesi prima al termine della Tavola rotonda, durante la quale il Pzpr e l’opposizione radunata intorno a Solidarnosc, con il contributo della chiesa cattolica, negoziarono la transizione. I punti principali furono la legalizzazione delle attività sindacali indipendenti, le elezioni presidenziali (si tennero nel 1990 e furono vinte da Lech Walesa) e quelle parlamentari del giugno 1989. Solidarnosc fece la cannibale. Si prese il 99% dei seggi del Senato e 160 dei 161 contesi al Sejm, accumulando una dote di consensi tale non solo da esprimere il primo ministro, Tadeusz Mazowiecki, ma da sviluppare un’agenda di cambiamento economico radicale e netta, con costi sociali enormi. L’ingresso nell’epoca democratica e del libero mercato ne risultò drasticamente accelerato.

Il paradosso del 4 giugno 1989 sta nel fatto che né i comunisti e né Solidarnosc si aspettavano che le urne restituissero tale esito. I primi interpretarono malissimo l’umore delle masse, maturando l’impressione che esistesse una maggioranza silenziosa che, spaventata dal salto nel buio, avrebbe preferito votare il Pzpr e imprimere alla transizione un passo lento. Il voto dimostrò invece che i polacchi volevano farla finita senza indugi con il comunismo.

Solidarnosc non si aspettava una simile valanga di voti. Perché, semplicemente, non era più la Solidarnosc di inizio decennio. La legge marziale del dicembre del 1981, promulgata dal generale Wojciech Jaruzelski, da poco scomparso, annichilì la carica rivoluzionaria e spensierata dal partito-sindacato fondato da Lech Walesa e riconosciuto dal regime nel 1980, sbattendone in cella molti dei dirigenti. Una volta abolita la legge marziale, nel 1983, Solidarnosc galleggiò in modo semiclandestino nel grigiore della Polonia degli anni ’80, senza riuscire a dare scosse. Quella finale arrivò con gli scioperi del 1988, partiti da Stettino. A determinarli, più che il ritorno dello spirito di Solidarnosc, fu l’insostenibilità di un’economia incancrenita.

I comunisti polacchi, conti alla mano e in base al vento nuovo che tirava a Mosca con la perestrojka di Mikhail Gorbaciov, capirono che la transizione era inevitabile e necessaria. Il loro ruolo nell’89 polacco, visto da quest’ottica, assume una valenza tutto sommato positiva. Garantirono al paese una transizione pacifica. Non solo. Il modello della Tavola rotonda ispirò anche l’Ungheria, che imboccò la strada della democrazia alla stessa maniera, con il dialogo concertato tra regime e opposizione.

Sotto altri aspetti la gestione della transizione da parte comunista appare invece criticabile. Qualche storico ha messo in luce come il patto dell’89 permise agli esponenti più in vista del partito (che intanto cambiò nome e piattaforma ideologica) di fiondarsi sulla grande torta del libero mercato, smettendo i panni dei pianificatori e indossando quelli degli oligarchi. Il tutto, si sussurra, con il tacito consenso di Solidarnosc.

In tanti poi sono dell’avviso che l’89 polacco sarebbe potuto esplodere prima. Nel 1980, con il riconoscimento di Solidarnosc. Qualcuno dice che Jaruzelski, con la legge marziale del 1981, bloccò quella possibile svolta in modo criminale. Altri sono dell’idea che il golpe fu il male minore e scongiurò l’intervento armato dell’Urss. Il dibattito è riemerso in questi giorni, alla scomparsa, a 90 anni, del generale.

Vinte le elezioni del 1989, Solidarnosc non perse tempo. Il governo presieduto da Tadeusz Mazowiecki, anch’egli morto da poco, varò in breve tempo una serie di riforme che spinsero la Polonia sulla via del libero mercato, ma ebbero conseguenze sociali traumatiche. L’inflazione salì alle stelle, tante aziende furono fatte fallire e migliaia di persone si ritrovarono senza lavoro. Le stesse persone che avevano avuto la tessera di Solidarnosc nel 1980-1981. Alcuni degli intellettuali di Solidarnosc arrivarono a bollare la shock therapy, architettata dall’allora ministro delle finanze Leszek Balcerowicz, come un tradimento. Con il tempo si sono ricreduti, accorgendosi che terapia d’urto poteva essere fatta in modo migliore, ma fu come la transizione: inevitabile.

Oggi la Polonia ha un’economia interessante, una classe media in crescita. Ha fatto passi avanti, ma restano squilibri e disuguaglianze. Un presente comunque conseguenza del 4 giugno dell’89. Che fatica a trovare posto nella gerarchia della memoria. Le elezioni non furono pienamente libere, tanti comunisti restarono in parlamento e la terapia d’urto fu un massacro. Ma se quel giorno non si fosse votato chissà che piega avrebbe preso la storia polacca.