Spesso l’energia e la capacità di affascinare di un festival cinematografico si spande anche dalle sezioni cosiddette «minori», meglio quando sono retrospettive dedicate e tenute insieme da uno o più temi, da un periodo o da qualsiasi altra cosa, un sano esercizio per de-autorializzare il cinema e metterne in evidenza il suo statuto di arte collettiva e legata alle situazioni. È stato così per esempio in una bella retrospettiva che la Viennale di due anni fa dedicò a cinema in 16mm e le rivoluzioni, Revolutions in 16mm. Una retrospettiva per certi versi simile a quella organizzata in Austria ma questa volta completamente dedicata dalla Berlinale al cinema giapponese si intitola «Hachimiri Madness – Japanese Indies from the Punk Years», una serie di lavori originariamente realizzati in 8mm ed ora trasferiti in digitale con alcuni sottotitolati per la prima volta. Si tratta di 11 film realizzati nell’arcipelago nipponico dal 1977 al 1990, molto diversi tra loro naturalmente, ma tutti contraddistinti da uno spirito di rivolta e di ribellione, punk, grezzi, sperimentali, metallici o provocatoriamente sbeffeggiatori, sono quasi tutte opere giovanili di registi che sarebbero diventati in seguito nomi conosciuti e cercati dai circuiti festivalieri. 

Si comincia cronologicamente con Isolation of 1/880000 di Ishii Sogo (ora Ishii Gakuryu) del 1977, quello che può essere considerato a tutti gli effetti il regista giapponese dallo spirito più punk di tutti, autore che fra l’altro lo scorso anno è tornato alla crudezza dei suoi esordi con il pregevole ma non riuscitissimo Soredake/That’s It. Questo suo lavoro di fine degli anni settanta comunque ci ripiomba direttamente in un periodo molto peculiare ed interessante per il cinema del Sol Levante, alla soglia degli opulenti e televisivi anni ottanta ma allo stesso momento anni in cui, anche grazie alla facile reperibilità delle cineprese ad 8mm, incomincia quel fenomeno conosciuto come jishu eiga, i film super indipendenti, autoprodotti fuori da qualsiasi studio, autofinanziati e dallo spirito quasi amatoriale, punk appunto.

Fondamentale a questo proposito è stata la fondazione del Pia Film Festival, evento-vetrina per i lavori indipendenti di giovani aspiranti registi, manifestazione che fu lanciata nel 1977 e che continua tutt’oggi. Proprio il Pia Film Festival fu la vetrina per Macoto (non Makoto) Tezka, diciottenne dal cognome importante ma che voleva distaccarsi dalla pesante eredità del padre, il «dio del manga» Osamu Tezuka. Fa piacere dunque che siano presenti a Berlino due dei suoi lavori, un artista che nei decenni a venire è forse un po’ scomparso dal radar della settima arte giapponese ma che ha prodotto anche nei novanta e nei duemila delle opere sperimentali di certo valore.

Qui a Berlino saranno proiettati due dei suoi lavori giovanili entrambi datati 1979, High School of Terror e UNK, che lo stesso regista definisce un rifacimento di Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg. Del 1980 è invece Saint Terrorism di Masashi Yamamoto, regista che avrebbe guadagnato una certa notorietà internazionale due anni dopo con il suo Carnival in the Night. Nel suo debutto in 8mm sono presenti gli stessi temi che lo renderanno famoso in seguito, violenza indiscriminata per destabilizzare, prostitute, sesso ed una feroce critica della facciata perbenista della società. Lavoro meno conosciuto e più oscuro, almeno per chi scrive, è Tokyo Cabbageman K del 1980, firmato Akira Ogata, a quanto sembra un lavoro dai toni kafkiani e surreali, storia di un ragazzo che un giorno si sveglia trasformato nelle fattezze di un cavolo cinese.

Di tutt’altro genere l’esordio di Nobuhiro Suwa, autore che fin dagli inizi si ispirava al cinema europeo e nello specifico a quello francese, a Berlino sarà proiettato Hanasareru Gang del 1984 dove il regista che in seguito molto avrebbe girato in Francia, racconta una storia che per tonalità e stile è stata paragonata, con tutti i distinguo del caso, ad un Pierrot le Fou in salsa giapponese.

Fra i nomi più popolari in questa retrospettiva figura sicuramente Sion Sono, oramai diventato autore di culto ed un abitudinario alle manifestazioni festivaliere del globo. Sono sarà presente a Berlino con due dei suoi lavori dei primi anni ottanta, I am Sion Sono, una sorta di autoritratto eccessivo, autoesibizionista e autodistruttivo come solo il regista di Toyokawa è capace di creare, un’opera lontana dalle altezze poetiche dei suoi lavori migliori, ma interessante nonostante tutto per vederne l’evoluzione. Il giapponese avrà anche un altro film in Germania, A Man’s Flower’s Road, anch’esso del 1984, periodo in cui Sono sperimentava ancora con la poesia e con gli happening (Bad Film), ricordiamo che per sua stessa ammissione capì e decise che sarebbe diventato un regista solo dopo il successo internazionale di Suicide Club del 2001. 

Sion Sono appare anche come «attore» in Happiness Avenue di Katsuyuki Hirano girato nel 1986 ed ispirato da un manga di Katsuhiro Otomo. Hirano in seguito sarebbe diventato famoso come regista di pink eiga e di film porno e soprattutto forse per una serie di documentari personali estremi, in cui il regista stesso viaggia per chilometri e chilometri nell’isola dell’Hokkaido. Da non perdere poi Le avventure del ragazzo del palo elettrico, l’ultimo lavoro di Shin’ya Tsukamoto prima che il giapponese realizzasse il suo seminale Tetsuo ed in parte questo film girato in 8mm è la preparazione, stessi temi, stessi attori e stesso uso del grottesco e della musica, di quel delirio metallico che tanto colpirà l’immaginario del periodo e dei decenni successivi.

Di tutti questi registi Tsukamoto è forse l’unico, assieme a Yamamoto, che è riuscito a portare avanti e trasporre la sua strenua indipendenza e le sue visioni dai film in 8mm fino al digitale. Ancora oggi, febbraio 2016, Tsukamoto continua ad andare in giro in lungo e largo per l’arcipelago nipponico presentando e promuovendo personalmente il suo ultimo film, Fires on the Plain, uscito in Giappone la scorsa estate. Tsukamoto resta davvero il vero ed unico indipendente della scena cinematografica nipponica.

Chiude cronologicamente questa rassegna The Rain Woman di Shinobi Yaguchi, realizzando nel 1990, debutto che racconta la storia di due donne che dividono lo stesso appartamento. Hachimiri Madness si preannuncia davvero un bel tuffo in un’epoca in cui a definire lo stile molto spesso era anche la tecnologia stessa, una tecnologia ed un approccio che proprio perché «fuori luogo» nella nostra contemporaneità digitale post-cinematica, ci può dire ancora molto ed aiutare a creare quello scarto necessario per ottenere nuove visioni, in questo senso ed in questo caso la funzione dei festival cinematografici viene pienamente giustificata.