Palazzo Paleotti, al 25 di via Zamboni, nel cuore della città universitaria bolognese, è la prima sala studio multimediale in Europa, uno dei poli d’eccellenza dell’azienda Unibo. Chiara, 38 anni, una laurea in storia medievale con specializzazione in archeologia e una qualifica di archivistica e catalogazione, lavora al servizio di assistenza bibliografica: “Un servizio rivolto a un’utenza multidisciplinare di studenti e docenti che vogliono imparare a utilizzare le banche dati che l’università mette a disposizione. Ci sono 250 postazioni da cui si può accedere alle 320 banche dati a cui l’università è abbonata. Io gestisco questo servizio, nel senso che spiego come utilizzarle a chi ne ha bisogno”.

Nel 2012, quando Chiara ha cominciato a lavorare era stata assunta come impiegata d’archivio di primo livello da una cooperative (Team Service) che gestiva i servizi specializzati per Unibo. Sei ore di lavoro al giorno, per cinque giorni settimanali e uno stipendio di poco più di mille euro al mese. Poi il 27 settembre del 2013, un telegramma le annuncia il licenziamento: la cooperativa per cui lavora ha perso l’appalto. Tuttavia, Chiara e gli altri 13 del polo multimediale non perdono il lavoro. Unibo li rassicura: sarete assorbiti dalla coop che ha vinto l’appalto. È Coopservice: “uno dei player nazionali nella progettazione, erogazione e gestione di servizi integrati”, convenzionata con Consip, la società per azioni ministeriale a cui la pubblica amministrazione deve rivolgersi per acquistare alcuni, specifici, servizi.

Inspiegabilmente Unibo si è rivolta al Consip per servizi informatici e bibliografici che l’agenzia non vende. Così, ha acquistato servizi di vigilanza e da tecnici informatici e bibliografici i lavoratori di palazzo Paleotti si sono ritrovati ad essere inquadrati come portieri, con un notevole peggioramento delle condizioni retributive oltre che senza aver riconosciute le professionalità messe al lavoro.

“È un gioco sporco – evidenziano i lavoratori – perché se Consip non vende servizi tecnici avanzati, l’università dovrebbe bandire un contratto esterno come si fa in altre università, e non comprare, a nostro discapito, quello che vende Consip”. Ma l’ateneo fa orecchie da mercante, il prorettore Nicoletti, continua a dichiarare alla stampa che l’azienda universitaria ha le mani legate visto che per legge deve passare attraverso Consip.


Da una coop all’altra: la continua erosione di diritti e garanzie

A palazzo Paleotti, il cambio di appalto ha voluto dire un profondo peggioramento delle condizioni di lavoro e del salario. E, all’iniziale entusiasmo per la continuità lavorativa ha fatto rapidamente seguito la delusione. “La prima busta paga del nuovo contratto mi ha fatto prima arrabbiare, poi mi ha lasciato nelle disperazione. Da un giorno all’altro mi sono ritrovata con una busta paga dimezzata, di appena 580 euro, ma a parità di mansioni e ore di lavoro … da quel giorno io devo calcolare tutte le mie spese. Questo stipendio non basta neanche per pagare l’affitto e mi sono dovuta organizzare con altri lavori, con tutto un carico di stanchezza fisica e questioni psicologiche non indifferente”.

Quella di Chiara è solo una delle storie di vita e di lavoro di chi svolge servizi specializzati per l’università di Bologna. Il peggioramento delle condizioni lavorative ad ogni cambio appalto è una vecchia storia, tant’è che già nel 2011, i lavoratori si erano mobilitati. Gli edifici che lungo via Zamboni ospitano aule, biblioteche e sale studio, funzionano, nei fatti, grazie alla presenza costante di una trentina di lavoratori in subappalto, suddivisi tra i vari edifici, che affiancano alcuni altri lavoratori strutturati (ovvero assunti direttamente da Unibo).

Le loro mansioni sono piuttosto diversificate. “Abbiamo mansioni di portineria, vigilanza, controllo dei badge, front-office. Rispondiamo al telefono, smistiamo la posta ma facciamo anche tanta assistenza tecnica e informatica”. Nel contratto, però, precisa Francesco che lavora da cinque anni nella portineria del 34 di via Zamboni, “non è prevista l’assistenza tecnica, anche se quando abbiamo iniziato a lavorare abbiamo dovuto accordare all’ateneo anche la nostra disponibilità a svolgere mansioni non previste contrattualmente”.

Luigi, con una laurea in filosofia quasi in tasca, lavora da otto anni nella portineria di scienza della formazione, al 32 di via Zamboni. “Il mio compito sarebbe semplicemente aprire le aule, tuttavia ad ogni cambio d’ora i professori vengono a ritirare delle valigette con il materiale tecnico: computer, videoproiettore, impianti audio, eccetera, e il mio lavoro non finisce qui. L’utilizzo di queste strumentazioni va seguito e puntualmente i professori scendono a chiedere aiuto. Se le macchine vanno in blocco sono io che devo metterle a posto”. Ma c’è dell’altro. “Per contratto noi siamo discontinui” aggiunge Davide, che lavora nella portineria del civico 38. “Un contratto che prevede la discontinuità è quello che si applica a chi fa guardianato o custodia di un cancello, di una zona parcheggio, o ad esempio nell’area delle fiere, per cui c’è un lasso di tempo fra quando si apre e quando si chiudi in cui non c’è niente da fare e viene retribuito in modo differente. Noi invece, per tutta la durata del nostro orario di lavoro, svolgiamo molte mansioni. Il problema è quindi che a noi viene richiesto un tempo di lavoro più lungo. Per via della discontinuità il nostro full-time passa da 40 a 45 settimanali”.

Un enorme carico di lavoro a cui si aggiungo gli straordinari che ognuno dei lavoratori è costretto a fare per portare a casa uno stipendio appena al disopra della soglia di povertà. Francesco ad esempio lavora 11 ore al giorno dal lunedì al venerdì: “9 ore sono ordinarie, le altre 2 sono di straordinario. Ma questo è l’unico modo che ho per portare a casa uno stipendio di circa mille euro”.

Anche nel caso di questi lavoratori, il cambio di appalto, nel 2011, era costato non poco in termini di salario. “Nel passaggio a Coopservice – precisa Davide – abbiamo avuto qualche miglioramento, nel senso che la coop precedente (Rear) non ci pagava i primi tre giorni di malattia e io ero stato costretto a firmare per la rinuncia del mio tfr, Ma dal punto di vista del salario le cose sono peggiorate decisamente”. “A marzo del 2011 – aggiunge Luigi – la mia busta paga, per 40 ore settimanali, era di 1.213 euro, più 100 euro in buoni pasto. Il mese successivo, con Coopservice, ho trovato in busta paga meno di mille euro, le ore settimanali erano diventata 45 per via della discontinuità, le mansioni tecniche (circa 200 euro) non erano più riconosciute e anche i buoni pasto erano stati tagliati”.

Il paradosso è che per questo servizio l’ateneo paga a Coopservice, 19.80 euro l’ora, 2 euro in più del precedente appalto, eppure ai lavoratori viene corrisposta una paga oraria di circa 5 euro. “Anche al netto dei costi di gestione, com’è possibile che ci arriva in tasca appena un quarto di quanto Unibo paga per il nostro lavoro?” continuano a chiedersi i lavoratori che da qualche mese sono in stato di agitazione.

“No Coop. Si dignità”
Lunedì 31 marzo 2014, c’è stato il primo sciopero. La partecipazione, ben al di là delle aspettative, è stata altissima. Anche molti degli strutturati hanno solidarizzato con la lotta. E, benché via Zamboni di lotte negli anni ne abbia viste tante, lo scenario, quella mattina si presentava piuttosto inedito: l’intera via bloccata e picchettata, il portone di palazzo Paleotti (luogo simbolo della mobilitazione) incatenato, gli ingressi del 34 e del 36 non aprono neanche i battenti perché tutti i lavoratori sono in sciopero.

Al civico 38 un folto picchetto di lavoratori, studenti e precari non si limita semplicemente ad impedire l’ingresso, comunica le ragioni della lotta, assicurandosi al contempo che i disagi, pur tuttavia indispensabile per colpire l’immagine dell’ateneo e deturnare la rappresentazione dell’eccellenza che i vertici accademici continuano a proporre, siano, tutto sommato, contenuti almeno per gli studenti. Lo sciopero prosegue per 4 giorni. Il colpo d’occhio su via Zamboni rimane pressoché immutato: blocchi, picchetti e momenti di comunicazione. Alcuni docenti decidono di tenere in piazza le lezioni come forma di solidarietà attiva.

A mobilitarsi non sono solo i lavoratori di palazzo Paleotti, che hanno il triste primato di una paga base di 2.80 euro l’ora, la mobilitazione interessa tutti i dipendenti di Coopservice, preoccupati che nell’orientamento all’”armonizzazione” dei contratti nella pubblica amministrazione possano subire, al cambio d’appalto previsto per il mese di luglio, la stessa sorte dei loro colleghi del polo multimediale.

“Non vogliamo più farci fregare” afferma convinto Luigi. “Nel 2011, al momento del precedente cambio di appalto, abbiamo fatto tavoli tecnici, c’è stato un tentativo di conciliazione con il prefetto che poi è fallito perché Coopservice non si presentava agli incontri, e alla fine non è cambiato niente. Per questo abbiamo pensato: questa volta vi picchettiamo tutto come a Granarolo!”.

“Abbiamo quindi costruito un’assemblea con i collettivi Hobo e Cua che sono attivi in ateneo”, aggiunge Chiara, “tutte – incalza Davide – persone che conosciamo benissimo, che vediamo tutti i giorni e che hanno capito che non si trattava solo di fare solidarietà, ma di costruire un percorso di lotte più complessivo che tenesse conto anche del futuro lavorativo dei giovani laureati di questo ateneo”.

Alla prima assemblea, all’inizio di marzo, hanno partecipato anche i lavoratori in lotta contro il colosso bolognese del caseario, Granarolo, che insieme a Legacoop (che assume i facchini che lavorano in subappalto per Granarolo), da circa un anno, porta avanti un braccio di ferro con una cinquantina di lavoratori licenziati senza giusta causa che adesso chiedono il reintegro. “Sentire dalla voce diretta di chi sta nelle lotte che l’unico modo per sconfiggere il ricatto di perdere il lavoro è quello di alzare la testa e lottare, mettendo da parte la paura, è stato per noi importantissimo”.

È Luigi a parlare ma gli lavoratori presenti annuiscono. Se c’è, in queste lotte, un dato di generalizzazione, quantomeno in potenza, è proprio il rifiuto di un lavoro che annichilisce. “Le cooperative ti tolgono i sogni” afferma Davide sconfortato. “Non puoi organizzare né vivere la tua vita quando sei costretto a lavorare per 11 ore al giorno. Ed è assurdo che l’università, che dovrebbe dare degli esempi positivi di dignità sul lavoro, paghi i lavoratori 3 euro l’ora”, aggiunge Francesco.

Assumendo lo slogan: “No coop. Si dignità”, dove dignità significa soprattutto rifiuto dello sfruttamento, la mobilitazione, a singhiozzo, è andata avanti per tutto il mese di marzo e di aprile: blocco delle mansioni, momenti di comunicazione in strada e durante le lezioni, assemblee pubbliche e un’irruzione, il primo maggio, nella piazza bolognese della Cgil, che i lavoratori individuano come indiscusso complice del sistema delle cooperative (è il sindacato che rappresenta gli interessi dei lavoratori – benché non abbia iscritti tra i lavoratori in lotta – nelle trattative tra Unibo e Coopservice).

Anche il ministro Poletti che del sistema delle cooperative è una veccia conoscenza, ai vertici di Legacoop fino al suo incarico ministeriale, è stato contestato dai lavoratori di Coopservice quando a Rimini è intervenuto a “Le giornate del lavoro” organizzate dalla Cgil all’inizio di maggio. In entrambi i casi i lavoratori hanno esposto delle bandiere con un logo NoCoop.

“Dire No coop – ci spiegano – vuol dire combattere un sistema che vive del ribasso del costo del lavoro. Un sistema che negli anni ha innescato un processo di crescente sfruttamento e di cui è sempre molto difficile individuare le responsabile. Nel nostro caso Unibo si lava le mani e dice che la responsabilità è di Coopservice, Coopservice dice di essere in regola perché ha il consenso della Cgil e gli unici a rimetterci siamo noi, visto che poi alla fine il contratto che questi signori hanno firmato non arriva neanche a 3 euro l’ora”.

Nel corso di questi due mesi i vertici dell’Unibo, insieme a Coppservice, Cgil e Cisl hanno provato a dare delle risposte e, in busta paga i lavoratori di palazzo Paleotti hanno trovato un piccolo miglioramento. La partita resta aperta. “Non ci accontentiamo delle briciole – ripetono i lavoratori. L’aumento è solo una piccola integrazione per le mansioni tecniche mentre il problema è strutturale”. Inoltre l’integrazione non interessa gli altri lavoratori in lotta. Quindi la mobilitazione prosegue.

La rivendicazione ultima è l’abolizione del ricorso al lavoro in subappalto dalle cooperative. Come spiega Antonella Zago della Flaica-Cub, il sindacato che sta appoggiando la mobilitazione: “ci sono molte cooperative ormai completamente fuori controllo che sono oggi la prima causa dello sfruttamento. E noi le vogliamo fuori dall’università”. Nel mezzo ci stanno tutta una serie di rivendicazioni più specifiche, prima fra tutte l’applicazione di un contratto di lavoro adeguato alle mansioni svolte, e salari congrui.

Ieri e oggi sono stati lanciati altri due giorni di sciopero con blocchi e picchetti. Via Zamboni si prepara a vivere altri giorni di lotta. I lavoratori sono determinati ad andare avanti a oltranza con la mobilitazione e ripeto con convinzione: “Fino alla vittoria”. Proprio come si diceva davanti ai cancelli di Granarolo.