L’ Europa sta rischiando «come mai da quando è stata inventata». Lo dice il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. A minare alla base la coesione europea, a suo dire adesso, è la messa in crisi del trattato di libera circolazione di Schengen, letta come mancanza di fiducia reciproca e di governance di fronte a un’ondata migratoria in arrivo dalle coste dell’Africa e dal Medio Oriente che «rappresenta un cambiamento epocale», un fenomeno «che può essere sfruttato in modo positivo, approfittando per esempio del ricambio generazionale e della nuova forza lavoro, ma che rischia invece di incrinare la stessa costruzione europea».

Secondo i calcoli della Commissione Junker il costo della reintroduzione dei controlli alle frontiere interne, non solo al Brennero, ma ovunque nella Ue porterebbe a un costo dai 5 ai 18 miliardi di euro l’anno, tra dazi e rallentamenti delle forniture. Ma a ben vedere nei rapporti della Commissione – diffusi a febbraio dal sito State Watch – si dice anche che l’euro e la compenetrazione finanziaria dei 28 paesi membri non avrebbero ripercussioni sostanziali dalla reintroduzione delle dogane nella Ue. Quindi le valutazioni di Padoan – e non solo sue – sulla fine dell’Europa attraverso la caduta in disgrazia del sistema Schengen devono avere un risvolto più politico che economico: la fine di un’idea solidale e civile di Europa e il trionfo dei nazionalismi xenofobi.

La riforma del trattato di Dublino sull’asilo e delle penalità per i paesi che non rispettano la direttiva sulle riallocazioni dei profughi sono in realtà nient’altro che un pour parler, al momento. Sei paesi dell’Ue (Austria, Germania, Francia, Belgio, Danimarca, Svezia) hanno inviato una richiesta di prolungare la sospensione di Schengen per altri sei mesi. Ma a Bruxelles hanno rinviato la discussione su questo, che si prevede complessa, al 12 maggio.
Intanto oggi a Bruxelles si affronterà sulla liberalizzazione dei visti Ue per i cittadini turchi, funzionale al consolidamento dell’accordo Ue-Ankara per l’arresto dei flussi migratori verso la Grecia e la rotta balcanica.

Il testo finale dell’accordo Turchia-Ue per ridurre i flussi migratori prevedeva liberalizzazione dei visti da entrambe le parti sempre che la Turchia fosse riuscita a soddisfare tutti e 72 i requisiti previsti per la riammissione nella tabella di marcia verso l’ingresso nella Ue della Turchia sospesa dopo il colpo di Stato del 1980.

I parametri sulla democraticità del sistema e l’applicazione effettiva di uno Stato di diritto sono per larga parte disattesi dal regime di Erdogan (solo 66 su 72 sarebbero rispettati nel rapporto preliminare Ue) ma Ankara in questi giorni ha sigillato del tutto le frontiere con la Grecia, dove da tre giorni non arriva neanche un barcone o un gommone con un migrante e come altra prova di buona volontà Ankara per ottenere il via libera ai viaggi visa-free per i concittadini turchi entro giugno, ha soddisfatto un altro requisiti: ha eliminato per parte sua i visti per tutti i cittadini Ue, compresi dunque i ciprioti.

Una mossa subito lodata dal commissario alle Migrazioni Dimitri Avramopoulos come «encomiabile». E così per esplicita ammissione dell’ambasciatore turco presso l’Ue Selim Yenel, Ankara si aspetta un «passi» definitivo nel vertice europeo di oggi.