Il dramma messo in scena dal Labour, con Corbyn aggrappato con le unghie e con i denti alla leadership nonostante ormai tutti i suoi deputati gli abbiano voltato le spalle, è lacerante al punto da non escludere il rischio di scissione. Ma ieri non ha prodotto altri colpi di scena della caratura cui siamo ormai abituati da circa una settimana. Maria Eagle, browniana ex ministra ombra del commercio e una delle prime crepe nella diga Corbyn – le sue lacrimevoli dimissioni sono state uno dei picchi drammatici della saga – doveva annunciare ieri pomeriggio la sua candidatura a leader del partito, ma non l’ha fatto, sperando che le ultime defezioni (ormai non si contano più) nel decimato drappello che ancora sostiene il segretario lo inducessero alfine a gettare la spugna. Per ora i sindacati sono ancora dietro di lui, ma non è dato sapere ancora quanto a lungo. Più Corbyn resiste disperato, più i deputati laburisti ribelli – insediatisi a Westminster prima che lui fosse eletto leader e terrorizzati di perdere il cadreghino in caso di elezioni anticipate – fremono.
In campo conservatore ci si azzanna ugualmente, ma in modo più discreto, quasi felpato. Davanti alla prospettiva del potere, le amicizie si dissolvono. Ma la successione in salsa Tory si ottiene mescolando due parti di Machiavelli, due parti di Shakespeare e un pizzico di Cesare Borgia, senza naturalmente il sangue. E da chi altri ci si poteva aspettare tanto brivido se non dal Boris nazionale.

Ieri scadeva il limite per le candidature alla leadership. L’istrionico Johnson, il superfavorito, forse il primo tory con senso dell’umorismo dai tempi di Walpole, ha usato l’attesissima conferenza stampa di annuncio della propria candidatura per rivelare il proprio ritiro dalla corsa, in un voltafaccia che ha lasciato tutti di stucco, alcuni addirittura in lacrime.
Dietro c’è una congiura di palazzo d’annata. Johnson aveva un discorso preparato, dal quale ha spettacolarmente deviato all’ultima curva. Dopo aver delineato la sua visione come leader del partito ha detto testualmente: «Queste sono le cose da fare per il prossimo primo ministro di questo paese. Ma devo dirvi, amici – voi che avete atteso fedelmente per la battuta risolutiva di questo discorso – che dopo aver consultato i colleghi e viste le circostanze in parlamento, sono arrivato alla conclusione che quella persona non posso essere io». Poi l’uomo di lettere ha sfoderato l’allusione al tradimento dell’amico Michael Gove, ex ministro della giustizia, alleato nella campagna per il leave e ideologo del partito, dritta dritta dal Giulio Cesare di Shakespeare: «Sta a noi saper seguire la corrente in un momento che ci è favorevole, o rassegnarci a perder la partita». È il discorso di Bruto a Cassio: l’ultimo atto di Boris Johnson sul palcoscenico della politica.

Non manca il retroscena familiare di una power couple che si rispetti. Qualche ora prima, lo stesso Gove, partigiano del leave, figlio di commercianti, ex education secretary e fanatico assertore di un nazional-neoliberismo ibrido che stava per distruggere quanto resta della pubblica istruzione prima che Cameron gliela togliesse di mano, aveva annunciato a sorpresa la sua candidatura, dopo aver detto ripetutamente che non voleva fare il premier e che avrebbe appoggiato il sodale brexiteer Johnson. La sera precedente era trapelata alla stampa un’email privata della moglie di Gove, Sarah Vine, giornalista del Daily Mail, che in un brusco memorandum riguardante la corsa alla premiership raccomandava al marito di accertarsi che Johnson – che inizialmente era per il remain, ha usato la campagna referendaria come autostrada verso 10 Downing Street e dunque non è considerato affidabile da magnati della stampa come Murdoch e Rothermere (Daily Mail) -, fornisse specifiche garanzie sul controllo dell’immigrazione prima che Gove gli desse il suo sostegno ufficiale.

Non si sa ancora cosa abbia indotto Johnson a chiamarsi fuori: forse la sua consapevolezza di non avere le doti necessarie a fare il premier. Forse l’annuncio della candidatura di Gove e l’implicita mancanza di fiducia nella sua. In molti nel partito non vedono plausibile che lo stesso ex sindaco fotografato appeso alla teleferica con delle bandierine in mano possa avere accesso all’arsenale nucleare del paese. Uno come Lord Helseltine, con Ken Clarke l’ultimo filoeuropeista del partito, lo considera principale responsabile per la nefasta vittoria del leave e per quello che considera il momento più oscuro della storia del partito.

Tolto Gove, la cui candidatura è ora offuscata dal velo della congiura, la papabile a cui potrebbe andare la massa delle preferenze dei membri del partito è la veterana ministra dell’interno Theresa May. Era per il remain, ma appare più credibile e rispettabile dell’ex binomio Gove-Johnson. Lo scrutinio si terrà il 9 settembre.