La vicenda di Ilva è l’occasione per ridiscutere le politiche economiche Europee. Tra il 2008 e il 2013 i governi dei paesi periferici da un lato spendevano centinaia di miliardi di euro per salvare patrimoni privati, dall’altro operavano tagli a welfare e sanità per oltre 200 miliardi.

Questa è l’Europa del liberismo reale, qualcosa di molto diverso dall’idea di laissez faire: gruppi di interesse privati accentrano capitale attraverso attività di lobbying, concentrando la produzione in poche aree centrali e distruggendo capacità produttiva in eccesso nelle periferie europee.
Un esempio attualissimo è AST: unico sito italiano di acciai speciali, uno dei più produttivi al mondo, stava chiudendo non per mancanza di commesse ma perché la finlandese Outokumpu è stata costretta a vendere gli impianti alla tedesca Thyssen, avendo l’Antitrust deciso che in caso contrario avrebbe ottenuto una posizione dominante. Prima dell’intervento del governo, che ha mediato l’accordo con i sindacati, Thyssen aveva deciso di concentrare la produzione in Germania, licenziando 2600 lavoratori in Italia. Si sarebbe dovuto permettere che AST fallisse?

La Germania non ha lasciato fallire Commerzbank, stanziando 14 miliardi di euro pubblici a fondo perduto, né ha lasciato fallire Opel. La KFW tedesca (la nostra Cassa Depositi e Prestiti) detiene il 31% di Deutsche Telekom. Nel silenzio assoluto è passato anche il salvataggio di Peugeot, nazionalizzata da due stati, Francia e Cina.

A Taranto, oltre al problema economico, c’è quello della tutela dell’ambiente e, soprattutto, della salute. In Germania, a Duisburg, è stato possibile bonificare i territori e riconvertire un impianto siderurgico da 9 milioni di tonnellate annue di acciaio. Taranto non merita la stessa attenzione?

Ilva rappresenta l’8% circa dell’intero settore metallurgico nazionale ed è possibile stimare che partecipa direttamente alla produzione dello 0.05% del reddito nazionale (oltre 750 milioni di euro). Si tratta di una cifra rilevante, considerando le stime di crescita per il 2015, ma che non tiene conto di numerosi effetti collaterali che una eventuale chiusura potrebbe arrecare al nostro sistema produttivo. ILVA infatti non solo vende acciaio ad altre industrie manifatturiere, ma è a capo di un indotto che inevitabilmente si contrarrebbe. Se è impossibile quantificare esattamente i due effetti, se ne può stimare l’ordine di grandezza.

Lo stabilimento di Taranto offre circa 9000 posti di lavoro full time equivalent. Considerando l’intero subsistema, se ne devono aggiungere altri 16000 circa. Per avere un’idea degli effetti di lungo periodo, possiamo poi stimare come la chiusura di ILVA modificherebbe le transazioni interindustriali. Complessivamente il Pil subirebbe un calo dello 0.24%, quasi 4 miliardi, mentre i posti di lavoro persi sarebbero circa 50.000. Venendo alla bilancia commerciale, le importazioni intermedie aumenterebbero di circa 2 miliardi e 385 mila euro, mentre le esportazioni, per contro, diminuirebbero di poco più di un miliardo di euro. La chiusura di Ilva condurrebbe ad un deterioramento della bilancia commerciale per circa 3,5 miliardi di euro.

In molti sostengono che Ilva è interessata da procedimenti europei con annesse sanzioni. La chiusura sembrerebbe la via “migliore” per evitarle. Al netto che tutti i paesi europei sono interessati da sanzioni, sarebbe molto più interessante valutare Ilva nel consesso industriale nazionale. Se il paese dovesse mai contradistinguersi con delle innovative politiche industriali e ambientali, Ilva e i settori limitrofi farebbero parte del rilancio economico del paese. La domanda che dobbiamo farci è la seguente: al paese serve una industria di base se la politica lascia solo il tessuto produttivo di beni capitali e intermedi, oppure alla mercé della concorrenza di costo?

Come sempre la scelta è politica, nel senso di progetto economico. L’Italia e il governo hanno progetto economico?