Lo Stato dice di no, loro invece rispondono «sì». Un sola parola, quella negata, una parola che diventa diritto. Accade in molti Comuni d’Italia, sempre di più. È solo un atto simbolico: il matrimonio fra persone dello stesso sesso è illegale, ma loro quel «si» lo dicono lo stesso anche se poi sulle carte ufficiali non comparirà.
Lo scorso sabato è successo a Ravenna.

Le spose sono Barbara Domenichini di 42 anni, membro del comitato di coordinamento della Casa delle Donne di Ravenna e Carla Baroncelli, giornalista, vent’anni in più. Un pomeriggio d’estate, un corteo per le strade della città e poi la cerimonia in una sala del Comune gremita di gente. E di quella gente hanno voluto sentire il brusio, le emozioni che attraversavano la stanza, la commozione.

Per questo nessuna colonna sonora né marcia nuziale. Le parole le hanno scandite bene perché la loro unione non è un fatto privato, è un fatto pubblico. Politico. La cerimonia è iniziata così «Sono dieci anni che viviamo assieme. Perché non ci sposiamo? Dove? Qui a Ravenna. E chi ci sposa che non si può? Non è per niente giusto, di diritti civili se ne parla inutilmente da decenni, tutto è immobile, mentre le nostre vite scorrono… Ribaltiamo il tavolo e giochiamo a «chi ci sta?». Facciamo un fatto e chiediamo a tutti e tutte di farci da testimoni. Cominciamo da Fabrizio Matteucci, è il primo cittadino no? L’atto di matrimonio non lo può firmare. È lo stesso».

C’erano anche l’assessore alla Partecipazione Valentina Morigi e quella alle politiche di genere Giovanna Piaia. Due donne che lottano per i diritti delle donne e che nel 2008 hanno istituito a Ravenna il registro delle unione civili, prima tappa della strada che porta fin qui. «Abbiamo la città con noi – dicono le spose – ed è per questo che non possiamo essere arrabbiate. Il fatto che ciò che è legittimo non sia legale dipende da interessi politici. Il Paese dice altro. Ed è qui che noi vogliamo sposarci. All’estero è troppo facile. Qui dove la gente sconosciuta per strada ci gridava viva le spose». Durante la cerimonia simbolica il sindaco non ha potuto mettere la fascia tricolore, ma l’ha sollevata in aria dicendo: «Mi auguro di poterla indossare presto».

Presto, addirittura in autunno a dar credito alle promesse di Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio ha annunciato che a settembre approderà in Aula il disegno di legge che istituirà in Italia le unioni civili per le coppie gay. Il modello a cui si ispira il progetto è quello della «civil partnership», nata in Inghilterra e tuttora in vigore in Germania. Le coppie omosessuali potranno iscriversi all’ufficio dello stato civile in un apposito registro. Così usufruiranno degli stessi diritti e doveri delle coppie eterosessuali sposate: reversibilità della pensione, diritto alla successione in caso di morte e la possibilità di assistenza negli ospedali e nelle carceri nonché di partecipare ai bandi per le case popolari.

Unica differenza con le coppie eterosessuali: non potranno chiedere un bambino in adozione, ma un partner potrà adottare il figlio dell’altro per garantire una continuità relazionale. Se alle promesse della maggioranza di governo seguissero anche i fatti sarebbe un traguardo storico per un Paese dove, fino ad adesso, a fare legge sono state le sentenze. La più recente e significativa risale allo scorso giugno. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 170, ha riconosciuto l’unione di due coniugi di Bologna, inizialmente bocciata dalla giustizia civile. Il caso è singolare: la coppia inizialmente era eterosessuale e regolarmente sposata. L’uomo però decide di cambiare sesso, tuttavia la coppia sceglie di rimanere unita, risultando così composta da due donne.

Poiché la situazione sembrava essere in contrasto con il nostro ordinamento, era stato disposto il «divorzio automatico». Seguono numerosi ricorsi da parte dei coniugi. Fino ad arrivare alla sentenza della Consulta che invita il legislatore ad introdurre «con la massima sollecitudine» una «forma alternativa (e diversa dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione di assoluta indeterminatezza».

Lo scorso aprile, un’altra conquista in un palazzo di giustizia. Il Tribunale di Grosseto ha detto sì alla trascrizione nei registri del Comune del matrimonio che Stefano Bucci, giornalista, e Giuseppe Chigiotti, architetto, avevano contratto a New York, nel dicembre del 2012. È stata la prima volta in Italia.

Nonostante la sentenza sia stata poi impugnata dalla Procura della Repubblica – e sarà quindi oggetto di riesame – ha sicuramente avuto il merito di gettare le basi per i casi successivi. A Fano, nel maggio scorso, una coppia omosessuale che aveva contratto matrimonio in Olanda, ha presentato formale istanza al sindaco per la trascrizione del proprio matrimonio: il sindaco ha detto «sì» senza intervento della magistratura.

E di sì ce ne sono sempre di più. Pochi giorni fa il sindaco di Napoli Luigi de Magistris ha firmato un provvedimento ordinando al personale dell’ufficio anagrafe di registrare i matrimoni gay celebrati all’estero. L’hanno seguito il sindaco di Roma, Ignazio Marino e quello di Bologna Virginio Merola.

Se è vero che una legge che tuteli le unioni omosessuali tarda ad arrivare, è vero anche che la nostra società sarebbe pronta ad accoglierla. Non sono ancora la maggioranza, ma ci andiamo vicini. A dimostrarlo è la prima indagine promossa dall’Istat e dal Dipartimento per le pari opportunità sulla popolazione omosessuale in Italia. Gli italiani che ritengono giusto che una coppia omosessuale possa sposarsi sono oggi il 43,9%, mentre superano il 50% i connazionali d’accordo con chi propone di riconoscere per legge gli stessi diritti di una coppia sposata alle coppie conviventi di persone omosessuali.

È il ritratto di un Paese che corre a due velocità. E ancora una volta, gli enti locali dimostrano di essere più vicini alle richieste della cittadinanza. Lo Stato, invece, appare sempre più immobile, sordo, ingordo. A raccontarlo, questo Stato, sono le parole che hanno sigillato l’unione di Carla e Barbara: «Il nostro Comune ci accoglie ma non possiamo sposarci perché il nostro Stato pensa che tra noi e voi ci sia una differenza. Però da questo punto amaro dobbiamo anche sapere uscire, perché a noi è sempre richiesto di più».