A un mese dall’omicidio del ventottenne pakistano Muhammad Shahzad Khan torniamo sul luogo del delitto, in via Ludovico Pavoni, nel quartiere di Torpignattara, a Roma. Quando imbocchi questa parallela a via dell’Acqua Bullicante, resa un po’ più claustrofobica delle altre strade del quartiere dal suo essere vicolo cieco, ti lasci alle spalle le fermate in attesa di inaugurazione della linea C della metropolitana, e, subito prima, largo Perestrello, che è lo spiazzo mattonato dove gli amici del diciassettenne autoaccusatosi dell’assassinio del migrante, hanno lasciato striscioni di solidarietà all’aggressore all’indomani del tragico evento. Uno di questi recita, vernice rossa su lenzuolo bianco: «Contro tutti e tutti sempre con te».

Contro chi e contro che cosa? Questa è la domanda che rischia di perdersi in un labirinto di strade, disagio e contraddizioni.

Parole come «sicurezza» e «degrado» assumono nuova luce, si ribaltano di segno, di fronte alle perizie mediche e alle ricostruzioni degli inquirenti. Subito dopo l’omicidio, la versione dei fatti è questa: il minorenne avrebbe colpito con un pugno il migrante dopo che questi, ubriaco, lo avrebbe provocato con uno sputo. Tra gli abitanti del quartiere corre scetticismo e circola timoroso il racconto dei pestaggi ai cittadini asiatici, bengalesi e pakistani, che alcuni giovanissimi bulli compiono quasi come rito d’iniziazione. Ne parlano anche i bambini della scuola elementare Pisacane alle maestre che cercano di fargli elaborare l’evento. «Non è la prima volta che picchiano qualcuno», raccontano tra i banchi.

Poi arriva l’autopsia, che conferma che a uccidere Shahzad non è stato un pugno: molti colpi diretti alla testa, forse sferrati da più persone, hanno causato un’emorragia interna. In seguito, i carabinieri arrestano il padre del giovane aggressore. Secondo gli inquirenti, l’uomo «avrebbe istigato il figlio a colpire selvaggiamente la vittima, determinandolo in tal modo ad agire, minacciando poi alcuni testimoni dell’aggressione affinché tenessero un comportamento reticente». È recluso a Regina Coeli, gli viene contestato il reato di concorso in omicidio volontario con l’aggravante di istigazione all’omicidio e minacce ai testimoni. Il Gip che ne ha ordinato l’arresto scrive che l’«aggressione a freddo» è stata compiuta con «violenza indescrivibile».

Via Pavoni pare addormentata, non si sentono i rumori delle strade ad alta densità di traffico e non si parla ad alta voce del delitto. La collocazione degli esercizi commerciali pare smentire una divisione etnica delle consumazioni al bancone. Sulla destra, muovendosi verso la via Casilina, c’è un bar con biliardo sul retro e bancone di formica che pare uscito dall’epoca in cui i villini che contrappuntano le palazzine erano erano baracche da sanare. È un locale che si direbbe «italiano», ma che è frequentato anche da migranti.

Poco più avanti, dall’altro lato della strada, c’è un altro bar, il Babù, questo invece gestito da indiani. Vi siedono anziani che rifiatano con la busta della spesa. «Vedi quel viale? – dice Alfredo, studente fuorisede, indicando la strada che sale verso il Pigneto e i primi accenni di movida – Sui tronchi degli alberi infilzano le siringhe». I tossici sono soprattutto italiani, ruotano attorno al Sert di zona. Le loro chiacchiere, raschiate dalla droga, si confondono spesso con le voci roche di birra dei rumeni che consumano bottiglie da tre quarti sul muretto.

Il modo convulso in cui è avvenuta la ricostruzione dei fatti aiuta a ricostruire la geografia sociale di via Pavoni. Per denunciare l’aggressione partirono tre telefonate, quella notte, da altrettanti appartamenti che da queste case basse affacciano sulla strada. La famiglia di uno dei testimoni ha dovuto traslocare in fretta e furia, dopo minacce velate o esplicite e pressioni di vario tipo. «Con ogni probabilità, metteranno in vendita l’appartamento con mutuo ancora pendente che avevano acquistato», raccontano i loro amici sconvolti. Il luogo del delitto, ai piedi di una palazzina di tre piani, è tutt’ora completamente anonimo, senza un mazzo di fiori o una foto a memoria della vittima innocente. Il tentativo di affrontare l’evento che ha scosso questo quadrante multietnico, portato avanti da veglie di preghiera, incontri tra genitori della scuola, manifestazioni in memoria della vittima e assemblee di quartiere per discutere dei veri problemi, pare essersi fermato ai confini della strada.

Più in là, oltre le vetrine degli annunci di molte agenzie immobiliari, gli alimentari asiatici con insegne come Bangla Town e le botteghe di artigiani italiani, c’è piazza della Marranella. È qui che hanno piazzato il loro banchetto, con tanto di bandiere tricolori, alcuni esponenti di destra, pare vicini a Fratelli d’Italia, che hanno avuto il cinismo di manifestare a pochi passi da un luogo in cui un migrante è stato ucciso, per protestare contro «l’immigrazione selvaggia». È finita che decine di persone, soprattutto giovani e migranti assieme a esponenti dei comitati, si sono ritrovate spontaneamente dietro lo striscione «Il vero degrado è la guerra tra poveri» e hanno attraversato in corteo il quartiere. «Invitiamo tutti i residenti, italiani e migranti, a manifestare giovedì 23 novembre prossimo fino al municipio, per rivendicare i nostri diritti e non combatterci a vicenda», dicono gli antirazzisti nel tentativo di ribaltare di segno ogni tentazione xenofoba.

Lo sbarco delle destre è stato annunciato da una visita serale del redivivo Gianni Alemanno. L’ex sindaco, noto da queste parti per la disattenzione chirurgica verso il quartiere, si è fatto fotografare di soppiatto, con il dito puntato verso il centro culturale islamico di via Serbelloni, definito «moschea abusiva» e ha affidato a Twitter la sua incursione. Verso est, oltre la via Prenestina, c’è Casalbertone. Qui la speculazione politica delle destre si è spinta oltre: militanti di Casapound, freschi alleati della Lega in salsa lepenista di Salvini, hanno anticipato i temi della manifestazione di oggi a Milano contro l’immigrazione presidiando l’accesso alle scuole serali frequentate da molti migranti, raccogliendo l’indignazione degli insegnanti. Il vicolo cieco di via Pavoni, a Torpignattara è dietro l’angolo. E non è solo una metafora.