Ha voluto contemplarli molto da vicino. Per narrare Raghda e Amer, una coppia di rivoluzionari e il loro vissuto in Siria prima della guerra e durante, i loro quattro figli e l’esilio, Sean McAllister, documentarista inglese con un solido tracciato di ricerca in Medio Oriente, ha sentito che doveva assolutamente andare oltre la nube del racconto mediatico-politico internazionale, oltre il rintocco sterile delle immagini di rovina e di morte. Allora ha scelto di stare accanto a quest’uomo a questa donna e ai loro ragazzi, a un passo dal loro respiro, dallo sconforto più cupo, come dalla gioia più improvvisa e dallo scatto resiliente di ognuno. Forse, per capire la guerra e i suoi effetti, bisogna lasciarla fuori. Così ha mischiato la sua vita alla loro per 5 anni, da quando Palmira e il suo splendore erano ancora un vanto per quel regime che invogliava turisti e giornalisti a esaltare il paradiso siriano, mentre attivisti come Raghda, all’insaputa del mondo, erano in carcere per aver osato parole come «democrazia» o per aver messo in discussione, con un libro, quel quadretto idilliaco. Dal carcere, dove anni prima aveva conosciuto Amer, combattente nel Fronte di Liberazione Palestinese, Raghda sarebbe uscita nel 2011 proprio grazie alle insurrezioni iniziali contro il governo di Assad, con l’intervento di Hilary Clinton e il rilascio di alcuni detenuti politici. Il regista sarebbe stato sul punto di iniziare un dialogo con lei, in ascolto di racconti impregnati di angoscia e dei tanti uccisi, quando avrebbe sperimentato di persona le prigioni siriane, 5 giorni bendato – come racconta lui stesso in voce over nel film – con lo stridere costante delle grida dei torturati, privato della camera e di parte del girato, costretto a lasciare il Paese per il Libano. Il progetto sarebbe stato sul punto di spegnersi, ma Raghda e Amer, dopo un periodo nel campo profughi di Yarmouk, lo avrebbero cercato ancora, e lui li avrebbe seguiti, senza Raghda, partita di nuovo per la Siria, o tutti insieme a Parigi, quando la loro storia avrebbe cominciato a rivelare segni di deflagrazione … E poi? Cosa ne sarebbe stato degli occhi bellissimi e inquieti di Raghda e di Amer, dello sguardo già così saggio dei loro figli, in questo inenarrabile vortice di eventi lungo solo cinque anni?
Comrade and lover, compagna di lotta e di vita, si intitolava uno scritto sulle lettere di Rosa Luxemburg a Leo Jogiches. In questo caso, lo scorso aprile, a Firenze al Middle East Now, mentre al festival si proponevano analisi sulla mancata risoluzione della questione siriana (mappa degli ostacoli geopolitici e responsabilità), con Sean McAllister e la sua presenza ricca di umanità e humor, ci siamo addentrati in A Syrian Love Story.
Torniamo all’alba di questo progetto. Volevi fare un film che indagasse le ricadute della politica in Siria, un film su un amore nato da uno spirito resistente condiviso?
Quando sono arrivato in Siria nel 2009, sono rimasto incuriosito dal secolarismo del Paese, dal boom del turismo, e mi sono chiesto cosa la gente provasse realmente per Assad, se fosse affetto o paura. Dopo circa un anno, ho incontrato Amer in un bar a Damasco e lui ha rappresentato una breccia fondamentale per indagare oltre le apparenze. Non credo pensassi necessariamente a un lavoro sull’amore. Certo, l’amore ha uno spazio grande nei miei film. In questo caso, mi ha incantato il suo racconto sul modo in cui lui e Raghda si erano conosciuti, attraverso un foro nella cella del carcere, il volto di lei tumefatto per le botte subite. Era estremamente evocativo potente. E poi mi coinvolgeva che Raghda fosse stata di nuovo arrestata e che lui cercasse in ogni modo di farla uscire. Per il resto non sapevo altro. È così quando cominci un documentario: non hai alcuna idea di come evolverà la dimensione narrativa, è come «un salto, un atto di fede». Fosse stata una sceneggiatura a Hollywood, sarebbe stata, due rivoluzionari si incontrano in prigione, si innamorano, quando nel Paese esplode la primavera araba, sono costretti a fuggire, ma trovano la libertà in occidente. Necessariamente un happy ending. Invece i documentari ti permettono di andare dentro la verità, qualunque essa sia.
Quando ti sei reso conto che il film poteva avere uno sviluppo inaspettato a causa dello scoppio della guerra e poi del suo protrarsi?
La loro guerra in realtà è cominciata con l’esilio in Francia. Allora ogni cosa ha iniziato improvvisamente a crollare, mentre io cercavo di tenerli insieme come una persona sola. Credo che finché erano in Siria, li l’unisse l’esistenza di un nemico comune esterno. Quando questo bersaglio ti viene meno, ti restano solo l’altro e te stesso verso cui riversare la tua rabbia.
Vuoi dire quindi che sono stati più determinanti fattori privati della loro relazione, che non cause esterne, politiche?
Forse la guerra ha reso più palesi dinamiche latenti. Anche perché tra la Siria e la Francia c’è stato il periodo in Libano, quando lei ha scelto la rivoluzione e lo ha lasciato solo con i figli, mentre lui, che aveva accettato la separazione mentre lei era in carcere, continuava a supplicarla di tornare. La fase in Libano ha lasciato strascichi che sono esplosi in Francia. Lì avrebbero potuto trovare pace e felicità, ma c’era il demone della rabbia, lui era tremendamente incazzato per l’abbandono vissuto, e ha cominciato a essere aggressivo, aspro. Sono diventati tristi, bevevano tantissimo, lei era infinitamente provata, ha sentito un’altra volta nostalgia della rivoluzione, ed è andata via di nuovo.
Raghda è una rivoluzionaria, è la compagna di uomo, è madre. Dal film però emerge un mondo in cui ancora non si accetta che una donna sia tutte queste cose.
Credo sia interessante approfondire una relazione in cui gli stereotipi di genere sono capovolti. Sempre in quel film hollywoodiano, Che Guevara della situazione sarebbe stato lui, non lei. Invece per me è essenziale porre non solo interrogativi politici, ma una serie di questioni di genere. Cosa accade quando una donna lascia i figli per seguire la propria strada di attivista? Forse è consentito in occidente, ma non nel mondo arabo. Se scegli la rivoluzione, se hai una posizione più decisionale di quella del tuo uomo, non ti consentono più di tornare indietro.
Ho sentito particolarmente il conflitto che Raghda avverte dentro di sé, soprattutto per il senso di non accettazione da parte di Amer.
Lei è esasperata perché Amer non può fare a meno di controllarla. Senza dire che soffre di stress post-traumatico per quello che ha vissuto in carcere – incubi, stato di all’erta continuo – qualcosa che ho potuto comprendere con il mio arresto. C’è una linea centrale nel film, quando in un momento di totale crisi, Amer sta per rompere il computer che Raghda ha nascosto per impedirgli il contatto con la sua nuova donna, e lei gli dice, ogni siriano ama i prigionieri. La angoscia pensare che lui abbia amato solo l’idea di lei in carcere.
Al tempo stesso, mentre il dolore si fa strada in Raghda, è come se si mostrasse più propensa ad aprirsi. Se pensiamo al bisogno di supporto psicologico che necessita chi vive condizioni traumatiche, sembra tu abbia offerto una sorta di sostegno terapeutico. In particolare quale è stata la reazione di Raghda rispetto alla tua presenza?
Chi conosce una guerra sulla propria pelle, ha più che mai bisogno anche di aiuto psicologico. Di solito però questo tipo di interventi sono svolti da professionisti che non ti conoscono. Nel mio caso invece io avevo un rapporto con questa famiglia. Certo, a volte non sopportavano la mia presenza, mi dicevano, basta! Con Raghda poi è stato diverso, perché quando ho iniziato le riprese era in prigione, così al suo «ingresso in scena», avevo già instaurato un rapporto con i suoi familiari. È stato come ricominciare daccapo, mi sentivo spaventato, e a sua volta lei non era a suo agio, non riusciva a fidarsi. C’è voluto un lento avvicinamento. Poi, quando stavano per lasciarsi mi ha telefonato, dicendomi, devi venire assolutamente a filmare …
Hai parlato di rapporto ravvicinato. Prima abbiamo percepito quanto fosse difficile per Raghda stare lontana dal suo Paese. («Ritorneremo quando Bashar cadrà», dice al figlio piccolo). (Al festival con Khaled Khalifa si è discusso della diaspora degli intellettuali siriani). Parliamo adesso di distanza come posizione della camera e come relazione tra te e questa famiglia?
Mi piace girare da solo, con luci discrete, senza troupe. Credo che soltanto così si possa creare quell’atmosfera di raccoglimento che permette un accesso onesto alla vita delle persone. Quando giro voglio essere vicino in questo modo (e si approssima al mio viso a una trentina di centimetri, ndr). In alcune sequenze dove Raghda si rivolge direttamente a me, sembra così vicina, non perché la camera zoomi, ma perché siamo realmente a una distanza minima. Esattamente quello che voglio. Alcuni ritengono sia invasivo, io credo invece che si debba cercare di filmare gli angoli scomodi della vita delle persone.
In certi momenti adotti il punto di vista dei figli – in particolare del più piccolo, Bob – testimoni del caos della guerra, delle migrazioni e dei litigi dei genitori.
Sono decisioni arrivate al montaggio. Certamente è un modo più obiettivo di narrare la storia. Dal momento che non ero presente quando Raghda ha cercato di uccidersi, ho chiesto a Bob. Il suo è stato un racconto particolarmente visivo, grafico. I bambini guardano le cose esattamente come farà il pubblico, da osservatore indipendente. Il loro punto di vista è spesso l’unico di buon senso, nei film come nella vita …
Era essenziale per te narrare la guerra quasi senza nessuna immagine della guerra?
Assolutamente sì. Quando abbiamo iniziato a montare, avevamo molte più immagini con «bang bang». Mi sono detto, al diavolo! Tutti conoscono queste cose, le vedono ogni maledetto giorno nelle news, quello che non vedono è cosa la guerra produce veramente nella vita delle persone.
Per esempio, quando nel finale il figlio più grande sta guardando sul computer immagini di amici morti durante la guerra, e mostra anche la foto della sua ex, una ragazza filo- Assad comparsa all’inizio – che pure non era un personaggio simpatico – c’è un moto di sgomento che accomuna te e chi guarda e che credo arrivi più di qualunque immagine.
È così. Ci sono solo piccole conversazioni con Raghda e Amer, domande politiche fondamentali. «Perché gli occidentali non ci hanno aiutato? Prima, quando i morti erano 1000, poi quando sono saliti a 250 mila …?». Solitamente un documentario è fatto per il 70% di statistiche, dati. Noi abbiamo voluto sovvertire tutto questo. Nel film il 70% è costituito dal dramma interiore e solo un 20% da fatti che abbiamo inserito delicatamente e non con la voce roboante dei documentari tradizionali.
In questo senso il film lavora sul restituire identità a esistenze provate che vengono ulteriormente oltraggiate dalla rappresentazione che se ne dà.
Se pensiamo all’immagine del bambino morto sulla spiaggia, che ha commosso l’Europa e il mondo, per me era una immagine pornografica della morte. Chi invece ha il privilegio di conoscere Bob, il suo sorriso il suo sguardo, credo che dopo torni a guardare le immagini delle news in modo diverso.
Come pensi si sia modificata la vita di Raghda e Amer, dei figli? A volte credo che un documentario possa usarti o scombussolarti l’esistenza senza portare evoluzioni, altre invece che possa incidere nel profondo. In questo caso anche sulla tua vita, se pensiamo al momento dell’arresto e al tentativo del governo di bloccare il film.
Penso che il film abbia inciso sulle nostre vite in modo indelebile. Poi c’è l’indotto del documentario per il mondo, ogni volta che la si proietta, la loro storia continua a unire Raghda e Amer. Non credo che un film possa operare cambiamenti radicali, come sembra credere Michael Moore, ma piccoli mutamenti sì. Mi sono chiesto come raggiungere un pubblico più vasto e ho pensato ad alcuni miei amici in fabbrica nel nord dell’Inghilterra, che non hanno idea di cosa siano la Palestina o la Siria. Per me trattare l’amore, i bambini, è qualcosa di molto meditato. Diventano il tramite attraverso cui fai passare elementi di politica. All’inizio del progetto mi è stato detto, la Siria? Non interessa a nessuno … Il film, una volta finito, doveva andare su BBC4, ma quando lo hanno visto, hanno deciso di trasmetterlo su BBC1, in prima serata. Meraviglioso.
Durante le riprese, di volta in volta ti sei sentito più vicino a uno dei due, è normale, no?
A volte mi sono immedesimato più in Raghda, altre in Amer, perché lei è impossibile. Per questo lui la ama. La loro storia continua oltre la separazione e quando si trovano in difficoltà continuano a chiamarsi.
Credo ci siano legami insondabili e profondissimi che durano al di là di tutto. Cosa hai capito dell’amore attraverso questa storia, hai una compagna?
Ho una compagna e tre figli. Dell’amore ho capito che è complicato come sempre, che è folle e che non c’è modo di capirlo. I figli di Raghda e Amer mi dicevano, «loro si amano ma non dovrebbero stare insieme … Se questo è l’amore, non è per me».

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