“Bibi Jan, che ne dice se andiamo a teatro, domani?”. Rientrato a Kabul dopo una decina di giorni di interviste, appuntamenti mancati e incontri fortuiti tra Lashkargah, nella provincia meridionale dell’Helmand, e Jalalabad, a due passi dal confine pakistano, ho subito chiamato la principessa India d’Afghanistan. Figlia del re riformatore Amanullah Khan, capo di Stato negli anni Venti del Novecento, Bibi Jan ha passato gli “ottanta” con estrema nonchalance, la stessa con la quale affronta la vita in una città poco ordinaria come Kabul.

Sono andato a prenderla nel primo pomeriggio di oggi, giovedì 11 dicembre, al Kabul Star, tra i migliori hotel di questa caotica città, a due passi dall’ambasciata iraniana, tra la zona dei ministeri e quella delle residenze diplomatiche straniere. Con un taxi abbiamo raggiunto il liceo Esteqlal, che al suo interno ospita il Centro culturale francese, uno dei pochissimi luoghi dove qui a Kabul sia ancora possibile seguire attività culturali vivaci, dalle mostre fotografiche ai film, dagli spettacoli teatrali agli eventi musicali.

L’ingresso è ben protetto. Una sbarra di metallo e un ampio cancello impediscono l’accesso alle automobili. Si entra da una porticina di ferro, passando per una stanzetta dove due guardiani hanno il compito di perquisire e controllare i visitatori. Questa volta sono con una ospite molto speciale. Nessun controllo. Solo un’ostentata riverenza per la principessa India.

All’interno del Centro culturale, decine di ragazzi e ragazze scambiano chiacchiere, messaggi sui telefonini, qualcuno scatta foto alle immagini appese alle pareti. E’ la giovane élite di Kabul, quella che guarda spesso con entusiasmo verso Occidente, che parla un discreto inglese, sfoggia Iphone e scarpe lucide, i capelli impomatati per i ragazzi, il velo accennato e i pantaloni stretti coperti da un vestito a mezza gamba per le ragazze.

Ci viene incontro la direttrice del Centro, Laurence Levasseur, che entrambi conosciamo da tempo. Già coreografa e animatrice di diverse attività teatrali, Laurence nel 2012 faceva le prove del suo spettacolo circense all’interno di un piccolo palco ricavato nel giardino della casa che condividevo con il collega Emanuele Giordana, firma ben conosciuta dai lettori di questo giornale. Laurence ci fa accomodare in sala. E’ ancora vuota. Scegliamo i posti. Fila centrale, ma nelle sedie laterali, per evitare che i miei quasi due metri disturbino troppo.

Viene a presentarsi Inge Missmahl, una psicologa che ha messo su una organizzazione non governativa che si chiama Ipso e che cerca di promuovere la “stabilità e la pace in Afghanistan attraverso attività culturali”. I soldi vengono dal ministero degli Esteri tedesco e dall’Unione europea. E’ l’organizzatrice e la registra dell’evento di oggi. Bibi Jan e Inge Missmahl discutono prima in francese, poi in tedesco: “l’ho studiato 70 anni fa e ancora un po’ me ne ricordo”, spiega con ironica modestia la principessa India.

Dopo mezz’ora la sala comincia a riempirsi. Alla nostra destra, due simpatiche ragazze afghane, truccate e ben vestite. Sulla fila di sinistra, giusto alle nostre spalle, notiamo due-tre uomini che “stonano”. Non hanno jeans e giubbotti alla moda. Indossano i tradizionali vestiti afghani. Inge Missmhal introduce la pièce teatrale, Heartbeat. The Silence after the Explosion. “E’ un tentativo di rappresentare i momenti che seguono un attentato, quando il tempo sembra fermarsi e ci si guarda intorno smarriti”. Cercando di capire perché, come, chi. E soprattutto se siamo ancora vivi.

Lo spettacolo inizia sulle note dei musicisti dell’Afghan National Institute of Music. La musica è stata scritta da Yves Pignot, un compositore francese con capelli lunghi e bianchi raccolti in un codino. Entrano gli attori. Parlano poco. E’ un teatro molto fisico. Fatto di gesti e musica, più che di parole. Bibi Jan decide di cambiare posto: un energumeno le si è seduto davanti. Preferisce spostarsi, piuttosto che chiederlo a lui. Si siede nella fila di sinistra, davanti al gruppetto che “stona”. Davanti a me si siede un ragazzino. Non sembra interessato allo spettacolo. Si guarda a destra e sinistra con una certa impazienza. Scivolo sulla sedia per farmi “basso”. Con le ginocchia tocco la sua sedia. Si gira. Mi scuso. Poco dopo, prende e se ne va.

Intanto la musica cresce e rallenta. Gli attori mimano gli attimi dopo un attentato. Sono stesi in terra. All’improvviso, una forte esplosione. Per un istante credo che faccia parte dello spettacolo. Mi guardo intorno e capisco che non è così. Realtà e rappresentazione si confondono. Il fumo è dappertutto. Cerco Bibi Jan. Mi alzo per andare da lei. E’ ancora seduta. “Fa parte dello spettacolo?”, mi chiede incredula e confusa, come me. “No Bibi Jan, andiamocene”. Cerchiamo una via d’uscita nel buio, tra calcinacci, detriti, pozze di sangue per terra. Bibi Jan si allontana. Io mi avvicino a un uomo in terra. Morto, la faccia sfigurata. L’insano vizio del giornalista mi spinge a fare una foto. Guardo verso Bibi Jan, sola in mezzo al disastro, e rinuncio. Intorno a noi le urla. Un paio di feriti vengono trasportati fuori. Abbraccio la principessa India. “Stai calmo, Giuliano, non è niente”, mi rassicura. Le tolgo del sangue dal viso. Non è il suo.

Insieme ad altri cerchiamo rifugio in un’altra ala del Centro. Bisogna ragionare sul cosa fare. Capire se si tratta di un solo attentatore o di un attacco multiplo. Alcune ragazze piangono. Un signore ha il volto insanguinato. Laurence presta soccorso a un ferito, steso in terra. Usciamo fuori, nel parcheggio della scuola. Urla concitate. Chi scappa di qua, chi di là. Alcuni poliziotti sono entrati nella scuola e si dirigono verso l’interno. Noi usciamo fuori. I feriti vengono portati via. Molti all’ospedale “Emergency”, poco distante. Ci andiamo anche noi. Voglio accertarmi che Bibi Jan stia bene. E farmi controllare: non sento bene dall’orecchio sinistro. Ci accolgono Emanuele Nannini e Luca Radaelli, colonne “storiche” di questo ospedale. “Te l’avevo detto”, fa Emanuele”, “l’Afghanistan è un posto sicuro fino a quando non succede qualcosa”. In queste settimane ne sono successe di tutti i colori. Sono undici i feriti portati qui dopo l’attentato al Centro francese, mi dicono. Sette verranno dimessi, perché non gravi. Ne rimangono tre. Uno è Mohammed Atif, tuttofare del Centro culturale francese. Per fortuna le sue condizioni non sono gravi, al contrario di un altro paziente. Intanto viene confermata la morte di un cittadino tedesco. E i Talebani rivendicano l’attentato: perché l’occupazione culturale equivale a quella militare, dicono i barbuti.

Mentre lasciamo l’ospedale di Emergency, la polizia di Kabul fa sapere che l’attentatore era un quindicenne. Forse proprio il ragazzino impaziente seduto di fronte a me. Anche lui una vittima, mi viene da pensare.