Entrare nella Casa dell’Arte a Merano, Kunst Meran, è come varcare la soglia dell’abitazione di qualcuno che si conosce. Comunica da subito calore, mistero e quel pizzico di brio dell’ignoto di quel che ci avrà preparato stavolta. Da mangiare. Ma qui si mangia cogli occhi, e visitando le Figurazioni tessili create da Frida Parmeggiani, si gusta un ricco piatto di quel che può essere l’immaginario teatrale. Frida Parmeggiani è stata per oltre un quarto di secolo (dalla fine degli anni settanta fino al 2007) la costumista più ricercata in Europa, dopo aver debuttato sulla scena con Samuel Beckett, lavorandoci di persona. Fu forse lo scrittore stesso dei silenzi parlanti ad averle insegnato come rendere espressive queste sue silhouette, quasi tutte rigorosamente in nero, che popolano eleganti, presenze forti, gli ampi spazi della galleria suddivisa su tre piani: appese a un filo sottile che scende dal soffitto, ben piantate nel terreno a mo’ di capitello rigidamente morbido, stese in diagonale quasi sospese nell’aria, fermamente altezzose in marcia, sottilmente verticali tendendo verso l’alto o inclinate verso il basso. Altre svoltano idealmente l’angolo, a braccetto tra il pieno e il vuoto, dove il nero rimanda alla somma di tutti i colori, comprendendoli, e il bianco il vuoto, riflettendoli tutti, fino ad arrivare in alto, dove un’ultima figura, leggera e trasparente come un angelo, bianca, si staglia contro l’ombra azzurra del cielo, quel blu fumoso che irradia dal tetto in vetro e che da sempre contraddistingue l’ora blu del famoso sound del blues.
Aggirarsi negli spazi completamente bianchi è compiere un viaggio nell’etereo mondo dell’immaginazione tout court che si è fatta concreta in questi personaggi pronti a calcare le scene, perché non sono lì per vestire qualcuno, no, esse sono – come scrive fascinosamente Elfriede Jelinek nel breve testo Was fällt, das hält (tradotto in italiano si potrebbe azzardare un «Ciò che cade, (si) (ci sor)regge»).
Le parole sonanti e visuali di Jelinek, tanto quanto lo sono i costumi di Parmeggiani, ci accompagnano sussurranti vicine e lontane per un paio di stanze. Questi abiti non hanno bisogno di nessuno per muoversi, essere portati nel mondo; essi sono già abitati perché sono «creature tessili» – per dirlo con le parole di Jelinek.
La mostra di Merano rende al meglio l’idea del magico viaggio creativo compiuto da lei e Bob Wilson: Frida è stata la costumista del grande coreografo regista per ben vent’anni, e insieme hanno inventato negli anni ottanta e novanta per milioni e milioni di spettatori entusiasti un teatro fatto di sole luci, colori e forme, e – soprattutto – di musica contemporanea e temi di attualità. Tra i tanti capolavori citiamo The Black Ryder (nel 1990, con Tom Waits e William Borroughs), Time Rocker (nel 1996, con Lou Reed), e lo spettacolare – proprio perché «non spettacolare» – Quartett di Heiner Müller nel 2006 con Isabelle Huppert al Théatre de l’Odéon di Parigi. Il secondo Quartett composto dal duo, il primo risale al 1987, anno in cui si erano incontrati. Come? Ce lo raccontano entrambi, separatamente: abbiamo incontrato Frida a Merano, dov’è nata e tornata a vivere nella sua amata natura; Bob Wilson ha scritto un testo per il catalogo di cui pubblichiamo un estratto qui accanto.

Frida, come ha conosciuto Bob Wilson?
Nel 1977 lavorando ad Amburgo, vidi là il suo Einstein on the Beach, con le musiche di Philip Glass, ed erano cinque ore di puro… wow! Nessuno aveva mai visto nulla di simile! Era talmente visuale, come una stella lontana sull’orizzonte, irraggiungibile, almeno per me! Poi nell’82 vidi The Golden Windows a Monaco, un’altra pièce affascinante. Personalmente continuavo il mio percorso, all’epoca stavo lavorando alla Staatsoper di Monaco per il Ring di Wagner.
Un giorno mi telefonò Ivan Nagel, amico, critico e direttore artistico molto stimato nel mondo teatrale tedesco chiedendomi se avessi tempo per fare qualche costume in una piccola pièce. Erano solo quattro, di numero, mi garantì, chiosando come sapeva fare lui. Ero in piena preparazione del Ring e per di più subito dopo già ingaggiata per un Don Carlos all’Opera di Amsterdam, per cui gli dissi un secco «no!». Lui però insisteva, finché alla fine, esausta, gli chiesi: ma chi sarebbe il regista? Lui: Bob Wilson! Fu come una scossa elettrica e la mia risposta arrivò sparata: ma certo che ho tempo! Dopo il Ring, mi recai dunque a Ludwigsburg essendo stato lo spettacolo parte del cartellone del festival, allora gestito allora da Nagel, Theater der Welt: fu il Quartett di Heiner Müller. E come nelle migliori favole, ci siamo trovati e mai più lasciati, tranne che per un lavoro a Salisburgo.Va detto che per conoscere il mio lavoro, Wilson venne a Monaco a vedere il Ring, sapevo che non era un buon lavoro, non avendo avuto un buon feeling col regista che per me era quel che potrei definire non proprio un «mio» regista. Bob lo descrive molto bene nel testo che ha scritto per il catalogo della mostra… per cui non voglio aggiungere nulla. Confesso che all’inizio non è stato facile, il mio inglese era una vera catastrofe! Comunicavamo senza parole, intendendoci sin da subito: c’era un’armonia sul piano visuale rispetto a quello che ognuno nel suo ambito aveva immaginato. Per me l’incontro con Bob Wilson è stato di sicuro il più importante a livello professionale.

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Eppure lei ha incontrato un altro «grande» del teatro, Samuel Beckett.
Ho avuto una bella fortuna! I costumi della prima regia lirica erano per un Lohengrin a Bayreuth, la mecca della lirica in Germania, poi allo Schauspielhaus di Amburgo avevo come regista Rainer Werner Fassbinder per Frauen in New York nel 1977. In quegli anni sono stata anche prima assistente in tre reparti dello Schillertheater di Berlino, dove Beckett mise in scena i suoi due testi Tritte e Damals (siamo nel 1976, ndr). Una grande emozione. Era quello il mio mondo, mi dissi, e passavo tutto il mio tempo in teatro. Preferivo lavorare sempre: in teatro tutto è vivo, lavori corpo a corpo con gli attori, sei nel mezzo del processo creativo ed era ciò che mi interessava di più.
Erano arrivate offerte anche dal mondo del cinema, da Volker Schlöndorff, ad esempio, ma non me la sentivo. Gli attori sono sempre grandiosi ma il cinema è un altro mezzo di espressione artistica, la macchina da presa rende tutto diverso.

Si crea un’altra ottica – nel vero senso della parola – vedendo lo spettatore sullo schermo nella sala buia, mediato dalla fotografia e dal montaggio del regista, rispetto a quel che vede lo spettatore in una sala teatrale, osservando direttamente secondo la propria regia visiva ciò che accade dal vivo sul palco. Ci sono molti registi che lavorano in entrambi i settori e parlano proprio di questo: il teatro è vita, il cinema è morte. Teoricamente, potrebbe anche avere una sua verità…
Sono d’accordo, così come dal punto di vista dei costumi c’è un’altrettanta enorme differenza tra il teatro e l’opera lirica. Quest’ultima mi affascina di più, perché aggiungendosi la musica che in questo caso non è solo accompagnamento ma ha un suo ruolo, se non persino la protagonista, lavorando per una regia lirica ci si può spingere molto più in là, anzi, è essa stessa che lo richiede. Devi osare, navigare e toccare dimensioni che nel teatro di parola sono inimmaginabili. Negli ultimi anni della mia attività, infatti, ho quasi sempre lavorato nel campo della lirica, eccezion fatta per il Quartett con Isabelle Huppert nel 2006, spostandomi da una Passione di Bach a una ripresa di una Madame Butterfly. Dico questo perché ha un suo fascino anche lavorare più volte a uno stesso testo, il Ring di Wagner, per esempio, dopo quello di Monaco, l’avevamo fatto altre due volte con Bob, una a Zurigo e una a Parigi, cambiando cantanti e ambienti. Era molto interessante, e per me una grande occasione, il fatto di rimettere mano a elementi già noti: non si finisce mai di imparare per poi stupirsi. Ora ha sperimentato qualcosa di completamente nuovo: creare costumi in modo astratto, nel senso che non devono servire ad alcuno spettacolo. Sono astrazioni tessili, come recita il titolo della mostra.

Com’è nata questa idea di inventare le sue «creature»?
Merano Arte mi aveva invitata a una conferenza per la Giornata della donna nel 2014 e in quell’occasione si parlò di fare qualcosa insieme. Ci sono tornata con alcuni disegni e schizzi proponendo di realizzarli per un progetto comune.
Ursula Schnitzer, curatrice di eventi, esposizioni e pubblicazioni, non poteva crederci: il comune amore per i materiali tessili e per la natura fece schioccare la scintilla di partenza per la mostra, poi realizzata in collaborazione con l’Università Mozarteum di Salisburgo che aggiunse una seconda mostra, per cui furono selezionati sei studenti del Dipartimento di scenografia e costumi, cinema e allestimenti scenici. A cura di Henrik Ahr è stata tracciata una loro interpretazione artistica del mio percorso come costumista. Per me è stato singolare lavorarci, non avendo mai fatto nulla di simile, è più un’installazione astratta che un insieme di costumi teatrali. Era come scolpire la stoffa con cui solitamente progettavo ciò che poi persone dovevano portare in scena, qui non c’erano persone, soltanto bambole, fili di ferro e le stoffe. Pian piano, ho scoperto un metodo per avvicinarmici, era un lavorare in modo più autentico, le cose accadevano, come quando un pittore dipinge o uno scrittore scrive… e non a caso si sono infilati parecchi elementi autobiografici.

Che materiali ha usato?
Seta con fibre di ananas, la adoro ma crea tanti problemi nella lavorazione… Poi c’erano altre tipologie pregiate come il lino, doppia organza di seta, panno di lana pesante o feltro di lana lievemente melangiato – in fondo tutto inizia da qui, dalla materia, da come cade, come veste… Normalmente si fanno i bozzetti, poi si modella, per me preferibilmente direttamente sull’attore, qui no, era come essere dall’altra parte… avevo iniziato, com’ero abituata, modellando sulle bambole, poi ho cambiato metodo, andavo un po’ a tentoni.

Seguendo la famosa metodologia di «Versuch und Irrtum», ossia «prova, sbaglia e riprova»?
Alla fine è arrivata una stagista per aiutarmi nel cucire e rifinire, e finalmente potevo di nuovo confrontarmi con una persona. In teatro ho sempre fatto un prototipo che poi veniva eseguito in sartoria. Ripensandoci, il mio modo di lavorare era proprio quello di uno scultore, e ciò si abbinava perfettamente al modo di lavorare di Wilson: lui creava gli spazi scenici con le luci, mi invitava sempre a essere presente per poi sviluppare ognuno nel proprio il grande processo creativo comune. È alla base che Wilson è diverso rispetto ad altri registi, ma ormai molti lo imitano.

Le sue silhouette sono per lo più in nero…
Amo il nero, anzi, a dire il vero sia il nero che il bianco. Lavorare coi colori non è facile. Nel creare costumi è diverso, ovvio, ci si pone il quesito dal punto di vista drammaturgico, anzi musicale nel mio caso. Ad esempio, sia per The Black Ryder che per Alice in Wonderland ho scelto colori che stridevano tra loro, tanto erano vividi e sgargianti.
A proposito, collaborare con Tom Waits o con Lou Reed è stato altrettanto affascinante per me, benché inizialmente non avessi nulla in comune con la loro musica ed è stato ancora una volta Bob a dirigere le armonie creatrici nella giusta direzione, per cui alla fine si lavorava in una costellazione a tre, dove ognuno era per sé ma tutti insieme per lo stesso fine: lo spettacolo. Loro, cioè Tom oppure Lou, preparavano musicalmente una scena, poi noi l’ascoltavamo, facevamo ognuno il proprio lavoro e alla fine si assemblava il tutto. Eravamo assolutamente diversi, l’uno dall’altro. Limitatamente a singole creazioni, la collaborazione ha funzionato bene.

 

 

Il testo di Bob Wilson

Nel 1987 fui a Stoccarda, impegnato sia in teatro che all’opera di quella città: il direttore artistico era Ivan Nagel. Un giorno egli mi suggerì di vedere il lavoro di Frida Parmeggiani poiché, a suo dire, sarebbe stata la persona giusta per creare i costumi per «Quartett», la pièce di Heiner Müller che intendeva produrre a Ludwigsburg. Nagel aveva la sensazione che la mia e la sua estetica avrebbero potuto completarsi a vicenda. Così mi recai alla Staatsoper di Monaco di Baviera per vederne i costumi che aveva realizzato per il Ring di Wagner. Purtroppo ciò che vidi non mi piacque affatto. Ciononostante, alcuni mesi dopo incontrai Frida e iniziammo a discutere del suo lavoro e del mio. Alla fine, le chiesi di creare i costumi per «Quartett». Io disegnai la struttura della scenografia e lei sviluppò un concetto per gli abiti di scena, e immediatamente mi resi conto che Ivan aveva ragione: il nostro lavoro era complementare! Frida aveva la capacità di vedere l’insieme e di scorgere un filo rosso di un lavoro e, soprattutto, pensava in modo astratto. Le sue forme scultoree erano architettoniche, il colore e l’invenzione dei materiali risultavano brillanti oltre che efficaci e mostravano una profonda conoscenza del teatro. Sapeva bene ciò che voleva e non scese mai a compromessi, seguendo la sua sensibilità morbida come il velluto e dura come l’acciaio. (Perm, Russia, 12/06/16)