Sono più di 2000 i migranti in attesa alla frontiera greco-macedone, in una terra di nessuno, perduta nelle lande sconfinate del nord della Grecia, di fianco al villaggio di Idomeni. E’ uno dei tanti snodi del «corridoio balcanico» che ha visto passare da inizio gennaio 600.000 uomini, donne e bambini. Sbarcati sulle isole i migranti sono obbligati a registrarsi nei centri di identificazione che si stanno trasformando in «hotspot», per poter comprare un biglietto per la nave che li porterà ad Atene. Dalla capitale greca, in autobus, raggiungono Idomeni, per poi continuare verso la Macedonia, in Serbia, Croazia ed Austria.

Negli ultimi mesi quello di Idomeni era un posto di frontiera come gli altri sulla rotta balcanica, dove i migranti sostavano qualche ora, per rifocillarsi e poi ripartire.

Ma il 17 novembre il meccanismo è cambiato e le porte del corridoio balcanico hanno cominciato a chiudersi. Per un effetto domino, Serbia, Croazia e quindi Macedonia hanno annunciato che dalle loro frontiere sarebbero passati solo iracheni, afghani e siriani. Gli altri – iraniani, bengalesi, marocchini, subshariani, algerini ma anche somali ed eritrei – sulla base discriminante della nazionalità, sono bloccati, senza una reale spiegazione se non il fatto di non essere iracheni, siriani o afgani. Nessuno dice loro il motivo di questo cambio né per quanto la frontiera resterà chiusa e se mai riaprirà. Chi prova a passare per altri punti del confine, comunque impervio tra foreste e fiumi, viene respinto se trovato senza il timbro di ingresso della Macedonia.

L’ingiustizia e la discriminazione si materializzano fisicamente in due file: da un lato quelli che possono passare, dall’altro quelli indesiderati, in mezzo la polizia.

Un gruppo può vedere l’altro ed il senso di ingiustizia e l’incomprensione diventa ancora più forte. A chiudere la frontiera, un cordone di polizia greco e uno, molto più massiccio, dell’esercito macedone. Sullo sfondo una fila di carri armati ed una barriera. In cielo si aggira un drone che filma tutto ciò che succede.

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Frontiera greco-macedone – Foto Sara Prestianni

Ad ogni passaggio di siriani, afgani ed iracheni, i migranti bloccati gridano all’ingiustizia. Tutti dovrebbero passare. Ripetendo «fateci passare non siamo dei terroristi», sventolano cartelli che inneggiano all’apertura delle frontiere e al diritto di circolare liberamente. Negli ultimi due giorni le manifestazioni sono state tranquille, ma i volontari ci avvisano che basta poco perché partano tiri di lacrimogeni. La rabbia è palpabile, causata dal senso di ingiustizia di una discriminazione arbitraria su base nazionale che si produce proprio davanti ai loro occhi.

Il professore

A.R é iraniano, in perfetto inglese mi dice di essere professore universitario, di avere una casa e uno status di vita agiato a Teheran «Se sono partito un motivo ci sarà. Se ho rischiato la vita in un gommone nel mare Egeo portando con me mia moglie incinta ed i miei figli non è perché voglio venire a lavorare in Europa. Non posso tornare in Iran, là rischio la vita». Difficile spiegare loro che la Macedonia ha deciso di violare la Convenzione di Ginevra, che prevede un’analisi personale delle storie di asilo, per applicare il principio discriminante della nazionalità basandosi su un documento fornito su un’isola greca.

Nessuno chiede a A.R. di raccontare perché è in pericolo. La polizia si limita a considerarlo un migrante economico e a farlo attendere in un limbo di freddo ed ignoranza, aspettando di conoscere quale sarà la sua sorte. A.R. continua arrabbiato «mi hanno detto che o decido di aspettare o torno ad Atene. Ma indietro non posso tornare». Da sabato mattina un gruppo d’iraniani ha cominciato uno sciopero della fame per chiedere che le frontiere siano aperte.

Le condizioni di vita, nonostante lo sforzo di vari volontari, restano difficili. Dormono in tende o in tendoni in totale promiscuità. Dentro una si sono riuniti tutti gli africani, di varia nazionalità, camerunensi, maliani, togolesi. In fondo scorgo un gruppo di eritrei. Hanno deciso di non prendere la via della Libia perché avevano troppa paura del mare. Hanno saputo di troppi loro connazionali che sono stati inghiottiti dal Mediterraneo. Poco importa se, essendo eritrei, c’è una fortissima probabilità che fuggano persecuzioni e abbiano diritto di chiedere l’asilo, ai macedoni basta sapere che non sono né siriani, né afghani né iracheni per bloccarli. Sembra che comincino ad essere anche a rischio gli afghani: saranno i prossimi ad essere bloccati, entrando anche loro a far parte della lista degli indesiderati.

Durante il giorno, se non sono a manifestare di fronte alla frontiera, i migranti si aggirano – avvolti da coperte – tra i binari del treno ed i fuochi che hanno acceso per resistere ad un clima che diventa sempre più rigido. Chiedono a chiunque quando la frontiera si aprirà, come una litania, anche se sanno che nessuno può dare loro una risposta sicura.

Un nutrito gruppo di giovani del Bangladesh si riscalda attorno ad un fuoco, che serve anche ad illuminare l’oscurità che cala su Idomeni di notte. Mi raccontano di come hanno rischiato di morire nel mare Egeo. Il loro gommone si è sgonfiato e sono finiti in acqua. I trafficanti avevano dato loro un gommone difettoso. Hanno venduto tutto per partire. Più di 2000 euro per andare dall’India all’Iran, poi in Turchia, ed ora sono bloccati. Uno di loro, con voce concitata mi dice che se lo rimandano indietro si ucciderà. Ha perso tutto, non può tornare indietro. E come una litania mi continua a chiedere «Quando la frontiera aprirà? I miei amici del Bangladesh il mese scorso sono passati senza problemi». Difficile spiegare i meccanismi geopolitici dello scacchiere europeo, dove i migranti sono pedine su un tavolo del risiko, dove le frontiere si aprono e chiudono senza preavviso, dove la vita di centinaia di persone può essere messa in sospeso il tempo di una trattativa o rispedita al mittente, in violazione delle Convenzioni Internazionali.

Stop agli arrivi

Il numero dei migranti bloccati alla frontiera resta pero costante. Stranamente nessuna barca è arrivata nell’ultimo giorno da Atene. È la prima volta da mesi. Nessun barcone né gommone ha raggiunto le isole dalle coste turche. Se il numero degli arrivi era leggermente diminuito nelle ultime due settimane, non si era mai registrata questa assenza di partenze. Questa «calma» può essere legata al clima, vista la tempesta che sta invadendo la regione, ed in quel caso appena il vento smetterà di soffiare altre barche arriveranno ed il numero dei migranti bloccati nel limbo di Idomeni sarà destinato ad aumentare. Ma può essere anche la conseguenza della decisione della Turchia di collaborare a fermare i migranti, come richiestogli dall’Ue. Le recenti denunce di Human rights watch che parlavano di retate lungo le coste turche potrebbero essere strettamente legate a questa calma nel mare. Se fosse così la situazione sarebbe ancora più tragica, migliaia di persone sarebbero costrette in un paese, la Turchia, già al collasso dell’accoglienza, dove lo stato non riconosce diritti ai rifugiati e la sopravvivenza – considerando i due milioni di rifugiati già presenti – è quasi impossibile.

Intanto ad Idomeni si preparano a che il numero di migranti aumenti e l’Unhcr ha costruito un altro campo, vicino a quello già esistente. Le tende si espandono attorno alla frontiera. Passando tra le tende si sentono i canti in decine di lingue diverse. La frustrazione e l’attesa. Mostrano il documento che è stato rilasciato loro sull’isola greca in cui sta scritto che hanno 30 giorni per lasciare il paese. Scaduto quel tempo possono essere detenuti ed espulsi ad ogni momento. Contano i giorni e sperano che l’indomani sia quello in cui gli stati decidano di aprire la frontiera e di lasciarli passare.