L’Irlanda che non ti aspetti è quella di un giorno di primavera in cui, per la prima volta nella storia, un paese si reca compatto alle urne per sancire il diritto al matrimonio delle coppie omosessuali. Ma ciò che stupì la comunità internazionale il 22 maggio 2015, ancor più della percentuale dei Sì (oltre il 62%), fu il mancato stupore degli autoctoni di fronte a un tale esito. Chi tradì un qualche sconcerto fu invece il Vaticano, il cui segretario di Stato, Pietro Parolin, scoccò strali avvelenati contro il referendum definendolo «una sconfitta per l’umanità». Ma i tempi erano cambiati, i festeggiamenti nella Rainbow Nation non si interruppero e ai più, persino dalle parti del pontefice, l’anatema sembrò solo un autogol.

Per meglio apprezzare la portata di questa rivoluzione sociale nell’ex-cattolicissima Irlanda, si consideri che gli atti omosessuali maschili sono depenalizzati solo dal 1993 e quelli femminili, significativamente, non sono contemplati dalla giurisprudenza.

Sull’onda dell’entusiasmo ci si è chiesti se la prossima vittoria dei movimenti per i diritti civili, questa l’egida sotto cui si muovono fin dagli anni Settanta i gruppi radicali, laici e femministi irlandesi, avrebbe riguardato l’aborto. Se, quindi, l’emancipazione delle coscienze e il crescente affrancamento della società dalla chiesa, complici i decenni di abusi sessuali e di insabbiamenti emersi a partire dagli anni Novanta, si sarebbero finalmente riflessi in una maggiore autonomia del corpo politico dall’ingerenza delle gerarchie religiose. Quest’ultime, infatti, comprese quelle protestanti, durante la recente campagna elettorale hanno puntualmente tuonato contro l’aborto.

 

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In base al Protection of Life During Pregnancy Act del 2013, l’aborto in Irlanda è permesso soltanto se la madre è in pericolo di vita. Eppure questa legge, definita «un orrore gotico e una barbarie» in un appello alla mobilitazione per abrogarla, è già il frutto di alcune revisioni dopo tragici episodi che hanno scatenato rabbia e proteste. L’ultimo di questi è stata la morte in ospedale di Savita Halappanavar, a Galway, dove i medici le hanno ripetutamente negato l’interruzione di gravidanza nonostante un principio di aborto naturale. Il dramma di Savila ha indignato a tal punto l’opinione pubblica che, seppur recalcitrante, il governo è stato costretto a promulgare la normativa attuale e prevedere il rischio di morte per la madre come condizione sufficiente per accedere all’aborto. A equiparare il diritto alla vita del feto e della madre è il famigerato Ottavo Emendamento, articolo aggiunto alla Costituzione nel 1983 in seguito a una consultazione popolare. Dieci anni dopo, con un altro referendum, innescato questa volta dal cosiddetto caso X – una minorenne stuprata e potenzialmente suicida cui veniva impedito di recarsi in Inghilterra, dove il trattamento in questione è legale dal 1967 – fu riconosciuto il diritto a viaggiare per ottenere un aborto e a ricevere informazioni in merito. Si calcola che negli ultimi 35 anni 162.000 donne abbiano dovuto lasciare l’Irlanda e recarsi nel Regno Unito per poter interrompere la gravidanza.

Molte sono le figure pubbliche nel comitato per l’abrogazione dell’Ottavo emendamento. Grande commozione hanno suscitato i racconti di Roisin Ingle, di Tara Flynn, di Susan Cahill, docente irlandese all’Università di Montreal che ha saputo di essere incinta durante una rimpatriata, ma non ha potuto ricevere le cure desiderate finché non è tornata in Canada: «Il mio aborto non è stato affatto traumatico», ha raccontato lo scorso mese dal palco dell’Abbey Theatre, «traumatico è stato il mese passato in Irlanda, intrappolata e impotente, consapevole di non contare niente per il mio paese». Dal canto suo, l’attrice comica Gráinne Maguire è balzata agli onori della cronaca quando ha iniziato a spedire un tweet dietro l’altro al primo ministro Enda Kenny circa i particolari del proprio ciclo mestruale, dolori e quantità di sangue inclusi: «Se vogliono controllare il mio corpo, se sono così a loro agio da poter interferire con ciò che mi succede dentro, allora dovrebbero almeno conoscerne i dettagli».

L’Irlanda che non ti aspetti passa attraverso i calcoli di Amnesty Ireland, secondo i quali l’80% dei cittadini è favorevole a un referendum per l’abrogazione dell’Ottavo Emendamento. Tra questi, stando ai sondaggi dell’Irish Times, è decisamente per l’abrogazione l’elettorato laburista e dello Sinn Féin (78% e 72%), un po’ meno quello dei due partiti principali: Fiánna Fail (60%) e Fine Gael (59%). Tuttavia, l’opportunità di indire un referendum è stata poco dibattuta, come tutti i temi eticamente sensibili, sia prima che dopo le elezioni. L’instabilità emersa il 26 febbraio dalle urne e l’assenza di una coalizione in grado di governare rischiano di far slittare ulteriormente qualsiasi gesto responsabile da parte di una classe politica troppo prudente e incapace di tenere il passo della società civile. In particolare, il timore dei settori conservatori è che un tale passo significhi rendere irreversibile il processo di disgregazione dei cosiddetti valori tradizionali.

Sicuramente è da evitarsi che l’abrogazione finisca per rendere più nebuloso uno scenario legislativo già oggi criticato da tutti, nessuno escluso, perché incapace di far fronte alle situazioni complesse. Ancora una volta, l’Irlanda che non ti aspetti, quella di chi abita l’Isola di Smeraldo fuori dai palazzi, si mostra anni luce avanti rispetto al corpo politico da cui è rappresentata.