Fatto il respiro di sollievo, gli operai delle Acciaierie hanno subito chiesto di incontrare i manager di Cevital e i dirigenti del ministero dello sviluppo economico. Vorrebbero capire cosa riserverà il futuro. Soprattutto vorrebbero leggere anche loro il piano industriale di cui hanno sentito parlare dai media, attraverso le parole del presidente toscano Enrico Rossi e del numero uno del gruppo algerino Issad Rebrab. Malfidati? Per certo in palazzo comunale nessuno conosce i dettagli di quel piano che il commissario straordinario Piero Nardi tiene gelosamente riservato. Aspettando, par di capire, l’ok della ministra Federica Guidi ad andare avanti, e poi la firma del preliminare di cessione della ex Lucchini.

In una città abituata alla concretezza della produzione industriale, e ferita in profondità dallo spegnimento dell’altoforno per mano di un governo cui erano state affidate – dalle banche creditrici – le sorti delle Acciaierie, “le parole le porta via il vento”. Certamente si dà credito a Rossi, quando riepiloga così la situazione: “Si tornerà a produrre acciaio, come chiedeva il territorio. Sono previsti 400 milioni di investimento per due forni elettrici e un nuovo laminatoio, e in due anni saranno riassorbiti tutti i dipendenti. Saranno bonificati inoltre i terreni e si inizierà a produrre biodiesel, olio vegetale, mangimi e zucchero, con altri cinquecento posti di lavoro attesi”. Al tempo stesso, come osserva puntuale il quotidiano cittadino più letto (Il Tirreno), “bisogna sapere che non tutti i problemi sono risolti, che ci saranno almeno tre anni molto duri dal punto di vista occupazionale, e di converso per il commercio, prima che il progetto Cevital marci a pieno regime”.

I fatti, impietosi, raccontano che oggi dei 3.700 lavoratori impiegati dall’impianto siderurgico, compreso l’indotto, una parte è in contratto di solidarietà al 60% dello stipendio, e un’altra parte è in cassa integrazione nelle sue variegate forme. Per giunta conquistata, nell’indotto, con gran fatica. “Cevital – spiega il fiommino Mirko Lami, coordinatore della Rsu – si è impegnata per continuare la laminazione. Ma oggi abbiamo materiale fino a metà dicembre, e a inizio gennaio saremmo costretti a interrompere la produzione. Poi si tratterà di vedere quali sono i tempi per la realizzazione del primo forno. Nella migliore delle ipotesi, tra qualche mese una parte dei lavoratori potrebbe cominciare la formazione, per poter utilizzare i due nuovi forni che Cevital sostiene di voler realizzare”. Nell’area di Ischia di Crociano, anticipano/azzardano alcuni, mentre nel vecchio, gigantesco stabilimento da bonificare dovrebbe trovar posto la piattaforma agro-industriale.

Nel contesto di una città di 35mila abitanti (sono 60mila nell’intera Val di Cornia) piegata dalla prolungata crisi del suo più importante datore di lavoro, con i negozi chiusi uno dopo l’altro e centinaia di case in affitto o in vendita da tempo, va a finire che solo gli operai più esperti segnalano il dato di fatto di una retrocessione produttiva: “Con l’altoforno facevamo i binari per le ferrovie e le metropolitane, quando ci saranno i forni elettrici faremo lamiere e tondini per il cemento armato”. Facendo così concorrenza ai soci storici di Federacciai, che difatti ha lavorato sopra e sotto traccia per cercare di evitare l’arrivo di Cevital. Mentre il commissario Nardi e il Mise hanno aspettato fino al 120esimo un rilancio da parte degli indiani di Jsw Jindal.

“La città sta aspettando un ‘padrone buono’ – tira le somme il piombinese Alessandro Favilli, segretario toscano di Rifondazione comunista – ma almeno per me i padroni buoni non esistono. Detto questo l’ok a Cevital del comitato di sorveglianza del Mise è sicuramente un segnale positivo. Ma resta il fatto che i prossimi due, tre anni a Piombino saranno di lacrime e sangue. E senza conoscere il piano industriale nei dettagli, come giustamente chiedono i lavoratori, siamo ancora nella nebbia. Intanto però si fa campagna elettorale, dicendo che in due anni saranno tutti riassunti”.