Trent’anni, un corso di arte e management tutto per sé alla Columbia University, Maggie ha deciso che è arrivato il momento di avere un figlio. Il progetto però esclude un compagno/ marito/padre, figura che potrebbe essere ingombrante e prevede invece di concepirlo con l’inseminazione artificiale. Lei è bella, anche negli abiti vintage di gusto retrò citazione forse dell’amata mamma quacchera, molto premurosa, organizzata, bravissima a pianificare la propria vita e quella altrui – «sei una brutta prepotente» le grida il figlietto del suo migliore amico che tra una mela e una verdura bio si indigna per questa sua decisione: «non sei una donna di 49 anni» – ma nelle relazioni ammette il suo disastro. E poi non le piace che sia il destino a decidere della sua esistenza, preferisce elaborare schemi anche se non richiesti.

 

 

Il caso è però imprevedibile, e con l’aspetto stropicciato del suo collega antropologo dell’immaginario (Ethan Hawke), ambizioni da scrittore di romanzi e crisi matrimoniale – «colpa» della moglie più famosa di lui (stupenda Julianne Moore) – le manda all’aria i suoi disegni. Maggie’s Plan Il piano di Maggie (il doppiaggio italiano è nonostante la cifra da cinema indipendente piuttosto buono) il nuovo film di Rebecca Miller (la figlia di Arthur, a proposito di paternità ingombranti) è una commedia che parla di sentimenti instabili e precari molto contemporanei, coppie che si lasciano e si riprendono, solitudini che si sfiorano, desideri complessi. E di una città, New York, esplorata dalle case piene di libri di intellettuali, professori universitari che scrivono saggi, citano Zizek, discutono di Occupy e appaiono però terribilmente disarmati nel confronto con la vita di fronte ai figli persino troppo saggi nella rivendicazione caparbia dei loro diritti infantili.

 

 

Più Cukor che Woody Allen, il primo e quasi obbligato riferimento per ogni sinfonia metropolitana dalle parti di Manhattan – pure se qui siamo nel nuovo quartiere chic di Williamsburg – Il piano di Maggie vive nel rapporto intimo, di amorosa complicità con la sua protagonista, la Maggie del titolo e con l’attrice che la interpreta,Greta Gerwig, magnifica nel trovare gli accenti sempre giusti per renderne la gamma di sfumature. Un personaggio in continuo movimento il suo ma che in fondo coltiva un solo desiderio, tornare «dall’altra parte» la figlia che era stata, cresciuta da sola insieme alla mamma in una simbiosi quasi magica interrotta brutalmente dalla sua morte. C’è in Maggie molto della cronaca generazionale del mumblecore, di cui l’attrice è l’icona, anche se qui siamo forse un passo dopo, tra quegli stessi millennials cresciuti (o forse no) e però ancora inadeguati al mondo.

 

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Infanzia e età adulta, passaggi obbligati, situazioni comiche, paradossi, rischi e avventure delle famiglie allargate, uomo e donna: Miller sa maneggiarli con sapienza, umorismo e delicatezza, accorda la narrazione al movimento imprevisto delle esistenze seguendo una sua strada forse più tortuosa, di maggiore irrequietezza, che procede nel labirinto della sue storie. E che nell’arco di diversi anni disegna la sua erranza emozionale di allegra seduzione senza cadere in nessun automatismo «romantico», sempre imprevedibile come chi ne fa parte, uomini e donne che cercano, esitano, corrono, inseguendo il disegno di una costellazione amorosa ideale – il famoso «piano» – che però, ci dice la regista non esiste, perché nessun incontro specie amoroso è regolabile seguendo uno schema puramente logico.

 
Rispetto ai suoi precedenti film, Miller mette da parte la centralità della figura paterna che finora li aveva attraversati, la biografia balena appena nel padre di Maggie (ma non lo vediamo neppure) professore di poesia silenzioso, e allarga invece lo sguardo a una pluralità corale. Anche questo è un film «femminile» – le sue donne o ragazze sono sempre poliedriche e mai banali – e insieme in empatia con ciascuno dei suoi protagonisti di cui la regista cattura una smaliziata universalità.
Come restituire il momento esaltante dell’innamoramento e la fine dell’amore, quando tutto quello che prima era fantastico diventa insopportabile? Un gesto, un dettaglio: leccarsi le dita.

 
Maschi col fantasma dell’eterno romanzo incompiuto che gli offre l’alibi per non prendersi nessuna responsabilità. Donne dispotiche in diverso modo, l’egocentrismo o la troppa disponibilità Ma Miller non giudica, piuttosto sorride, perché nell’impresa difficilissima che è cercare di essere felici, ciascuno se la cava come può, come in una danza una mattina di sole a Cenral Park pattinando sul ghiaccio.