AngelicA anno 25. La A finale maiuscola è un marchio di fabbrica, va mantenuta anche se non si sa bene che cosa voglia dire. Questo festival bolognese di musiche contemporanee non cede quote di curiosità, anzi le aumenta. Per le prime due giornate quest’anno va in scena il concettuale. Chiamiamo così lavori nei quali l’idea extramusicale, principalmente visiva, conta in partenza più del risultato. Sonoro o non sonoro. No, definizione tradizionale ma non buona. Siamo qui, al Teatro San Leonardo, per godere di un esito della comunicazione tra gli autori e il pubblico. Esito musicale, possibilmente. Christian Marclay, statunitense, sessant’anni, e John Oswald, canadese, sessantadue anni, hanno in comune il criterio di individuare situazioni o visuali o di vita quotidiana per stendere una piattaforma adatta alla performance musicale strettamente connessa allo spunto iniziale. Hanno anche in comune l’elaborazione del «già detto», insomma di brani musicali o film o video già esistenti. Non del tutto per quanto riguarda Oswald. Sono diversissimi tra loro, in ogni caso.

Marclay è protagonista della prima serata, Oswald della seconda. Entrambi presenti a Bologna, entrambi hanno allestito i loro «concerti» (mai parola fu più approssimativa ma è giusto tenerla in primo piano) nel vivo della preparazione di AngelicA. Marclay non scrive musica ma la suggerisce agli interpreti con tavole grafiche, nate da suoi atti performativi o happening o interventi urbani, oppure con suoi video, sempre ricavati da materiali pre-esistenti. Ad AngelicA 25 il gruppo di interpreti è l’ensemBle baBel (anche qui le maiuscole e minuscole misteriose vanno rispettate), svizzero, formato da musicisti che sanno di improvvisazione radicale, di aleatorietà, di rumorismo. Ma che suonano nei quattro lavori in programma musiche assai preordinate, come se fossero scritte, e quasi sicuramente lo sono. «Eseguono» Marclay, il non-musicista, ma ciò che si ascolta appartiene a loro o a Marclay? Estremo affascinante dilemma del dilemma che si intitola interpretazione.

Per Graffiti Composition i sei strumentisti (Jaques Demierre, pianoforte e clavicembalo, Antonio Albanese, chitarra elettrica, Laurent Estoppey, sax soprano e alto, Anne Gillot, flauto dolce e clarinetto basso, Luc Müller, percussioni, Noëlle Reymond, contrabbasso) hanno a disposizione, per inventare musica, 150 foto che sono state scelte da Marclay tra 800 da lui scattate per ritrarre una «mostra» specialissima: 5000 fogli di spartiti vuoti che lui ha incollato sui muri di Berlino, riempiti da passanti con segni di ogni genere (anche note musicali) poi deperiti, consumati dal tempo. La musica è di gran pregio. Parte da una semplice melodia, poi si inoltra in episodi che ricordano l’ultra-free, ci sono suoni isolati sospesi di chitarra elettrica, laceranti improvvise uscite del clarinetto basso, un clima rarefatto e trasognato eppure assai mondano, i suoni arrivano da tutti i lati della sala, il grado di imprevedibilità è altissimo. Un altro ensemble farebbe una cosa tutta diversa, questo ha trovato una soluzione che musicalmente seduce e convince.

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Meno felice la realizzazione di The Bell and the Glass, un video con schermo diviso a metà verticalmente dove si confrontano La mariée mise à nu par ses célibataires, même di Duchamp e la campana Liberty Bell. Emozionante la voce di Duchamp nel video. Che è molto ordinato, preciso, schematico, pur cercando i toni ironici. I musicisti vengono traditi dal bisogno didascalico, mettono da parte la radicalità del loro sapere musicale e vanno sul coloristico. Un po’ la stessa cosa succede con Shuffle, basato su 75 «carte da gioco» che altro non sono che le foto di insegne di negozi o frammenti di pubblicità dove si usa lo spartito come segno grafico. L’ensemBle baBel si ritrova, più giocherellone (ma sempre ordinato, quasi disciplinato, come senz’altro vuole Marclay), nella musica inventata per il film Screen Play, lunga opera di montaggio di una gran quantità di scene di film muti. Montaggio minuzioso di lunghe sequenze tenute intere: le sorprese vengono soltanto dagli stacchi «insensati» tra una sequenza e l’altra. I musicisti, invece, vanno via più liberi, tra ambient e free.

 

John Oswald è un predatore. Un saccheggiatore di musiche di ogni genere. Un riappropriatore per un consumo sovversivo di opere già fatte. Che stravolge, violenta un po’, fa diventare altre opere. Questo, almeno, per la prima parte della sua serata. Dolly Parton a velocità variabile, Atmosphères di Ligeti truccato sottilmente e accompagnato da un video astratto fantastico, Glenn Gould utilizzato solo come figura un po’ meditabonda un po’ guittesca e il suo Bach delle Variazioni Goldberg arricchito e trasformato da spiazzanti dissonanze e atonalismi. La Sagra della primavera di Stravinsky, versione per due pianoforti, che diventa un brano alla Cecil Taylor.

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Ma Oswald non è tutto così. Nella seconda parte della sua serata mostra un lato di stranito intimismo, di stupefatta estasi delle minime variazioni del quotidiano, anzi delle persone colte in uno spazio quotidiano tanto discreto quanto surreale, con un pizzico di ieraticità. Nei due video Aparanthesi vediamo, prima, un popolo di persone nude di ogni età che si affacciano e si dispongono sullo spiazzo di un parcheggio mentre dietro a loro il traffico scorre intenso, e quello del traffico è l’unico suono, l’unica «musica», che ascoltiamo.

Poi il popolo dei nudi incrocia un gruppo di persone che fanno parte del popolo dei vestiti, e questo gruppo si apre come il Mar Rosso davanti agli ebrei e fa passare i nudi che vanno oltre, verso un oltre che non conosciamo. Nel secondo video, una foto di «vicini di casa», bambini giovani e anziani, viene lentissimamente trattata, le persone scoloriscono, si vedono spogliate e poi rivestite, scompaiono, riappaiono, e qui la musica c’è, eccome se c’è, è scritta da Oswald, firmata chiaramente da lui: è una musica elettronica di suoni tenuti, di brevi interiezioni secche e gentili, di un dileguarsi del suono nel silenzio.