Abbey Lincoln (1930-2012) è una delle cinque «divas» (con Nina Simone, Shirley Horn, Betty Carter ed Helen Merrill) che la rivista francese Jazz Magazine ha celebrato nel dicembre scorso. Ma in Italia la cantante Ada Montellanico – battagliera presidente dell’associazione dei jazzisti MIDJ – le dedica un intero album, gettando luce su una donna che nata Anna Maria Wooldridge si trasformerà in Gaby Lee, Abbey Lincoln ed Aminata Moseka. Un lungo itinerario capace di portarla a bruciare i panni della «black Marilyn» fino ad essere una delle voci più originali e militanti del jazz. Ne parliamo con la vocalist italiana mentre il cd (incipit records, distribuzione Egea) è stato appena distribuito e viene presentato questa sera in un concerto alla Casa del Jazz di Roma.

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Il tuo nuovo disco, «Abbey’s Road», è un omaggio ad Abbey Lincoln. 

Da tempo le giravo intorno: Bird Alone era già nel mio precedente lavoro Suono di donna. Ho cominciato a lavorarci in trio, poi il progetto si è fermato ed è ripartito in quintetto, per arrivare a un concerto al Big Mama di Roma dove ho fatto un test live prima di incidere con Giovanni Falzone, Filippo Vignato, Matteo Bortone ed Ermanno Baron.

Dopo gli omaggi a Luigi Tenco e Billie Holiday, qui fai riferimento alla vocalist, interprete,paroliera, militante, femminista…Quale aspetto ti ha attratto di più nella figura della Lincoln?

Mi ha sempre affascinato in lei il suono originale della voce, questo suo essere innovativa però nel rispetto della tradizione. Non è di certo una cantante di jazz «canonica» che improvvisa, alla Betty Carter per intenderci. Mi piace che una cantante sappia raccontare delle storie: Lincoln è in ciò più rappresentativa, aveva storie da raccontare di grandissimo peso sia perché autrice di testi sia per le vicende della vita. Gli elementi di fascinazione sono legati al suo suono e a quello dei suoi gruppi. Sul canto tradizionale lavorava in ambiti trasgressivi e di grande innovazione.

Nel brano originale d’apertura («Abbey») «life» (vita) fa rima con «fight» (lotta) e c’è l’espressione «never loose»: non sarai mai dimenticata. Sono questi i termini del tuo omaggio a un personaggio scomodo?

Ho voluto restituire quanto mi arriva di lei, proprio questo senso del combattere per i propri ideali e utilizzare la musica come messaggio, come veicolo di contenuti di «peso». Oggi è necessario ritornare a quest’impegno. Lo trovo coerente con ciò che sto facendo da tre anni a questa parte (come presidente dell’associazione MIDJ, impegnata in un’ampia battaglia culturale e concreta, nda). Da questa cantante mi sento rappresentata nel suo vivere la musica anche come impegno sociale e politico.

La scaletta procede in ordine non cronologico da fine anni ’50 ai ’90, dai sentimenti alla militanza. Come hai selezionato? 

La prima scelta è sempre emotiva. Ho voluto, poi, fare un inevitabile cameo dalla Freedom Now Suite. Inoltre Abbey Lincoln ha interpretato moltissimi standard ma ho preferito lavorare sul suo aspetto autoriale. Mi piaceva, ad esempio, evidenziare il suo spirito africanista e, allo stesso tempo, la mia scelta è caduta anche su testi importanti come Throw It Away, Bird Alone, canzoni dove parla di libertà, identità, liberazione. Ci sono anche composizioni altrui come il pezzo di Charlie Haden First Song per cui ha scritto testi di alto livello.

Come è nata la combinazione tra «Driva Man» e «Freedom Day»?

Unirle è stata un’idea mia come la progettazione di tutto l’album compresa la strumentazione. Io guardo sempre in positivo quindi l’idea di attaccare il drammatico Driva Man alla possibilità di «diventare liberi» (Freedom day) mi sembrava giusto. Anche oggi le cose sono difficili, bisognerà faticare molto per cambiarle però credo che quando inizio una battaglia la porterò avanti qualunque cosa accada. L’anello di congiunzione con Abbey Lincoln e i brani della Freedom Now Suite nasce da Billie Holiday, da Strange Fruit che è diventato il pezzo più importante di ogni mio concerto. È il punto più alto della scaletta, dove io narro la storia, racconto quello che accade nella canzone, poi la canto ed è sempre estremamente emozionante. Penso sia importante farlo per sensibilizzare il pubblico a certe tematiche dato che – come la cronaca italiana, europea e statunitense testimonia – quella musica è ancora attuale, niente affatto anacronistica. Cantarla ci renderà certamente più consapevoli e responsabili.

Lincoln ha uno stile vocale originale, teatrale. Cosa si può riprendere della sua lezione canora?

Abbey Lincoln diceva che il suo faro era Billie Holiday in quanto voce assolutamente atipica, voce che non si potrebbe consigliare come modello per il «bel canto». Però entrambe avevano potenza evocativa e interpretativa, una forza che sicuramente altre vocalist non possiedono. Forse queste modalità appaiono inattuali, ma va ripresa l’importanza di saper raccontare una storia.

Qual è stato il ruolo di Giovanni Falzone come arrangiatore e come motivi l’eliminazione del piano?

Con Giovanni c’è un rapporto di grandissima fratellanza umana e artistica. Lui non aveva mai lavorato con la forma canzone prima di Suono di donna e ancor più in Abbey’s Road; anche io non sono una cantante «sperimentale» per cui ci stimoliamo nella nostra diversità. A Giovanni ho detto: «Vorrei fare un disco con questi strumenti, persone e materiale». Quello che ha fatto in maniera straordinaria è che si è preso le voci degli strumenti (voce, tromba, trombone, contrabbasso, batteria), i pezzi e poi ha lavorato per conto suo. Ha colto perfettamente nel segno riuscendo ad arrivare in pochissimo tempo ad un risultato, a mio parere, di notevole spessore. Lavorare senza strumento armonico mi dava un’idea di maggiore libertà e spazio. Mi piaceva che fosse forte l’elemento ritmico, per cui basso-batteria sono al centro dell’esecuzione. E poi adoro il trombone, strumento che c’era fin dal primo organico: avevo sentito Filippo Vignato per MIDJ nel progetto We Insist! rimanendone molto colpita. Mi piace questo suo aspetto estremo di innovazione ma anche il suo grande rapporto con la tradizione: in un giovanissimo trovare insieme questi due aspetti non è facile. È curioso che Giovanni non conoscesse Filippo e la prima volta che abbiamo fatto le prove c’è stata un’intesa immediata. È andata bene, ho scelto gli elementi giusti e ne sono contenta. La sensazione che ho è che questo album desti curiosità perché non c’è nessun omaggio discografico ad Abbey Lincoln. Le premesse ci sono, poi saggeremo il terreno con un tour promozionale. Siamo sempre in cinque ma bisogna fare ciò che uno ha in mente, con un certo tipo di suono in testa. Comunque ci conto e spero di poter fare più concerti perché è un progetto bello, nuovo, con tanti musicisti, con due giovani laureati nel Top Jazz quali Matteo Bortone e Filippo Vignato.