Cala il sipario sul presidente Giorgio Napolitano. Quello che oggi stesso sarà l’ex capo dello Stato aderirà al gruppo misto del Senato, avrà il suo ufficio e lo frequenterà spesso, nelle occasioni importanti, a partire dalla nomina del suo successore, interverrà in aula e sarà ascoltato non solo con il rispetto che si deve a un presidente emerito ma con l’attenzione che spetta a chi continuerà ad avere parecchia voce in capitolo nella politica italiana. L’uomo è certamente «contento di tornare a casa», come ha dichiarato ieri, ed è facile che alla fine abbia visto il Colle davvero «un po’ come una prigione». Non significa che intenda ritirarsi a vita completamente privata. Forse non ci riuscirebbe neppure se ci provasse. Troppo profondo è il segno che lascia nella politica italiana.

Giorgio Napolitano ha dimorato al Quirinale più a lungo di chiunque altro nella storia repubblicana, e ha interpretato il proprio ruolo in modo molto vicino a quello di coloro che lo abitavano prima della Repubblica: i sovrani. Quando Matteo Renzi afferma che il prossimo presidente «sarà un arbitro, non un giocatore» intende dire che non sarà un nuovo re Giorgio. Il toto-presidente diventerà nei prossimi giorni una tempesta. In realtà la sola idea di continuare con i lavori parlamentari come se nulla fosse è un po’ assurda e avrà ragione, se ci sarà, chi chiederà di congelare tutto sino a nuovo presidente. Eppure, molto più del nome del prossimo capo dello Stato, ci si dovrebbe interrogare sull’opportunità, e sulla possibilità stessa, di tornare indietro, di riportare le lancette a prima del presidente-monarca. Questa è la vera partita che si sta già giocando dietro la facciata fatta di nomi, trattative e conto dei franchi tiratori.

A elencare le occasioni in cui il primo presidente ex comunista ha spinto il suo ruolo fino al limite estremo, e secondo alcuni anche oltre, si perderebbe il conto. Giorgio Napolitano è il presidente che nel 2010, di fronte a una mozione di sfiducia nei confronti del governo Berlusconi con tante firme in calce da prefigurare con certezza la caduta di quel governo, insistette per posticipare il voto, pur sapendo (e come avrebbe potuto ignorarlo?) che così facendo offriva a un uomo molto potente la possibilità di acquistare come in un’orgia di saldi. E’ il presidente che, dimessosi Berlusconi nel 2011, non considerò neppure alla lontana l’ipotesi di verificare come intendesse procedere il Parlamento «sovrano»: aveva già in tasca, e da parecchio, la sua soluzione di ricambio. Mario Monti era gradito a lui e all’Europa: tanto aveva da bastare, tanto bastò.

Quando, tra qualche anno, commentatori e giornalisti cortigiani si sentiranno abbastanza al sicuro da permettersi di valutare con obiettività la lunga età di re Giorgio, non mancheranno di ricordare che si è trattato del primo, nonché unico, caso di un presidente che interpreta le sue funzioni tanto estensivamente da mandare il Paese in guerra, nei deserti e intorno ai pozzi di petrolio libici, senza prendersi il disturbo di far trarre il dado al governo o alle camere. E da sottrarre al medesimo Parlamento il diritto di decidere sulla scelta di spendere o no decine di miliardi, nel cuore di una recessione feroce, per rifornire il Paese degli aerei da guerra più costosi e peggio funzionanti del mondo.
Passata la paura di passare per grillino, qualcuno troverà anche meno ovvio di quanto non sia apparso sinora che un arbitro e un «presidente di tutti» occupi sostanziosa porzione del suo tempo per attaccare, denunciare e mettere quotidianamente all’indice il partito a torto o a ragione più votato dagli italiani nel 2011.

«E’ ora di tornare alla normalità», questo è l’umore che si respira nei palazzi e corridoi dell’età renziana. Alla normalità, cioè a quando il capo dello Stato era un arbitro con funzioni di mera rappresentanza. Ma quel «prima» è una favola. Il primo cittadino, in Italia, ha sempre avuto poteri enormi, e spesso li ha usati, a volte anche facendo tintinnare sciabole o spalleggiando ribaltoni. Il bivio non è tra un nuovo presidente-sovrano e il ritorno ai bei vecchi tempi. Proprio perché la rivoluzione introdotta da Giorgio Napolitano passa non per una modifica dei poteri del presidente ma per una loro interpretazione tanto inedita quanto allargata, questi nove anni non possono essere messi tra parentesi. Un presidente che provasse a «fare come prima», dopo Napolitano, finirebbe di nuovo nei panni del sovrano.

Il bivio è dunque tra rendere davvero la presidenza della Repubblica italiana una funzione formale e di rappresentanza, come non è mai stata anche se molti hanno fatto credere che lo fosse, o allargare ancora la breccia aperta da Napolitano, e certificare così definitivamente un ruolo del presidente tutt’altro che «arbitrale».
Con i numeri di cui dispone la maggioranza, allargata a Fi, individuare un presidente non sarebbe in sé difficile. Quasi tutti i nomi che circolano potrebbero andare bene. Arduo è invece decidere se imboccare la strada di un presidente spogliato di quasi tutti i poteri oppure quella di un presidente nella migliore delle ipotesi diarca, e spesso semplicemente monarca. Come è stato Giorgio Napolitano.