Per gli afroamericani è un giorno di dolore. Soprattutto per gli atleti, quelli della Nba, della Nfl che ora dominano le leghe, fatturando a varie cifre, come multinazionali. Oltre 50 anni fa, 55 per l’esattezza, Earl Lloyd, morto stanotte a 86 anni, metteva piede su un parquet della Lega. Il suo nome dice poco, per talento ora sarebbe solo un comprimario della pallacanestro americana, anche se è finito nella Hall of Fame, 12 anni fa. Ma spesso la storia entra dalla porta di servizio perché Lloyd era il primo tra gli afro a tirare e saltare tra i bianchi. Per loro non c’era stato ancora posto nella pallacanestro dei sogni, neppure a livello universitario. C’erano gli Harlem Globetrotters, con i numeri di magia sul campo in partite esibizione, che strabiliavano i tifosi per tecnica e fisicità. Ma non era la stessa cosa. Anche se lo sport statunitense aveva di fatto già sorpassato le barriere del razzismo, con Jackie Robinson che esordiva in maglia numero 42 con i Brooklyn Dodgers, nella Major Baseball League.

Per contratto Robinson non avrebbe dovuto reagire agli insulti del pubblico e dei colleghi. Esisteva l’uguaglianza sociale ma c’erano strati della società che emarginava i neri. Così la Nba, che non si mostrava pronta. Anche dopo il Draft 1950, quello del riscatto. Lloyd veniva scelto dai Washington Capitols debuttando in un match perso contro i Rochester Royals. A livello collegiale The Big Cat, come era conosciuto, andava forte, 14 punti e otto rimbalzi in media. La sua storia con la franchigia della capitale, che fallisce poco dopo, durava appena sette partite. Senza franchigia, prestava servizio militare prima del ritorno con la casacca di Syracuse. Con Lloyd nella Nba erano selezionati al Draft anche Charlie “Chuck” Cooper, il primo in ordine di scelta, ai Boston Celtics. Mentre i New York Knicks portano al Madison Square Garden Nathaniel Clifton, strappandolo con tanti dollari ai Globetrotters.

Gli episodi di razzismo nei confronti di Lloyd non mancavano mai. Spesso era costretto a stare in hotel o ristoranti diversi dal resto della squadra; appena arrivato nella squadra dello stato di New York non gli veniva consentito giocare una partita di preseason al Wofford College nella Carolina del Sud. E solo per il colore della sua pelle. Dopo di lui, qualche anno dopo, sarebbe toccato portare il testimone della lotta all’intolleranza a fuoriclasse dell’universo Nba come Bill Russell, il fenomeno dei Boston Celtics, che dalla Louisiana segnata dall’intolleranza diventava uno dei pionieri dell’integrazione razziale all’interno della Lega. Il gigante che non era mai inserito nel primo quintetto della Lega a fine stagione, anche se era il più forte. E che nel 1958 fu costretto a subire l’umiliazione di vedersi negare una camera d’albergo in North Carolina, in viaggio assieme a una squadra di All Stars.

Perché era nero. “Era una parete impossibile da penetrare: tu sei un negro, sei inferiore. Una sostanza untuosa, puzzolente, bruciante che ti ricopre” avrebbe spiegato Russell. Anche per lui, come per gli atleti che hanno richiesto a gran voce la cacciata del patron razzista dei Los Angeles Clippers, Donald Sterling, Earl Lloyd avrà sempre un posto speciale tra i giganti del basket americano.

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