Sabato sera, a Santiago, città dove iniziò nel 1953 la guerriglia contro il governo di Fulgencio Batista con l’assalto alla caserma Moncada, una folla di decine di migliaia di persone ha cominciato a dare l’ultimo saluto a Fidel Castro al grido di «Yo soy Fidel» («Io sono Fidel»).

Come era avvenuto a L’Avana e in tutte le città toccate dalla carovana che ha trasportato le ceneri del líder maximo nell’oriente dell’isola per la rituale sepoltura (quasi mille chilometri tra due ali di folla), la partecipazione popolare all’evento ha superato le previsioni della vigilia. La televisione cubana ha trasmesso tutto in diretta, alternando documentari storici a interviste a gente qualunque.

Si è potuto vedere un paese in lutto che ha perso chi – nel bene e nel male, spesso con eccessi di personalismo – lo ha guidato per oltre cinquant’anni. Vecchi, giovani, finanche bambini, emozionati hanno espresso il loro cordoglio confermando che la controversa figura di Fidel è comunque per tutti i cubani che vivono nel loro paese un padre della patria il cui lascito non potrà essere cancellato con un colpo di spugna.

Cuba ha sicuramente necessità di democrazia politica e di ulteriori riforme, troppo timide finora, ma chi si ostina a descrivere l’isola come un campo di concentramento, seppure tropicale, governato per decenni da un dittatore in divisa militare verde olivo, rischia di aver capito poco o nulla di una storia così peculiare come quella cubana, dove nazionalismo indipendentista con tinte latinoamericane e aspirazioni socialiste si intrecciano e dove – pur con tanti limiti – si è tenuto testa agli Stati uniti che volevano annettersela e poi all’addio di Mosca e dei paesi del «socialismo reale».

C’è invece qualcosa che va capito in quella storia e che spiega pure cosa è accaduto nell’ultima settimana, come hanno dimostrato le telecamere di tutto il mondo, a iniziare dalla statunitense Cnn che ha ormai a L’Avana un ufficio di corrispondenza da molti anni.

A Santiago, il discorso funebre è stato tenuto da un commosso Raúl Castro di fronte a molti invitati stranieri, tra cui i brasiliani Lula da Silva e Dilma Rousseff, il boliviano Evo Morales, il venezuelano Nicolas Maduro (c’era pure Diego Armando Maradona da sempre amico di Cuba): «Fidel, ti giuriamo di difendere la patria e il socialismo. Ci hai mostrato quello che si può diventare: un paese indipendente e rispettato, una potenza in campo medico e nel settore delle biotecnologie».

Il presidente cubano ha poi ribadito, rivolgendosi alla folla e senza nominare il nuovo inquilino della Casa bianca, Donald Trump: «Possiamo superare qualsiasi ostacolo per l’indipendenza e la sovranità della patria. Insieme si può».

È infatti la gelosa difesa della propria autonomia l’immediata preoccupazione del governo dell’Avana di fronte agli annunci bellicosi che vengono da Washington e dalla Florida con l’obiettivo di azzerare quanto fatto da Barack Obama (riapertura delle ambasciate, ripristino di normali relazioni diplomatiche, embargo meno rigido con inediti rapporti commerciali che puntavano all’eliminazione delle misure di penalizzazione economica).

Nel corso del suo breve discorso, Raúl ha fatto pure un annuncio: «Fidel, fino alla fine, rifiutava qualsiasi manifestazione di culto della personalità. Per questo, ci ha lasciato detto che il suo nome non deve essere utilizzato per ricordarlo con monumenti o denominazioni di strade, di piazze e di istituzioni pubbliche».

Un testamento quindi sobrio, che conferma la diversità di Cuba dai rituali a cui ci avevano abituati i paesi del «socialismo reale».

Sobria è stata anche ieri mattina, domenica, la cerimonia di sepoltura delle ceneri di Fidel nel cimitero di Santa Ifigenia a Santiago: pochissimi invitati presenti con i familiari e alcuni rappresentanti del governo.

La tomba, che non ha iscrizioni particolari ed è avvolta dalla bandiera cubana, è vicino ai caduti nell’assalto alla caserma Moncada e non molto distante dal mausoleo dedicato a José Martí, eroe della guerra di indipendenza contro la Spagna che si concluse, dopo trent’anni, nel 1898. A questo ultimo atto era presente anche Ségolène Royal, ministro dell’ecologia di Francia, che ha descritto ai giornalisti la cerimonia finale con parole di stima verso Fidel Castro attirandosi le ire della destra francese.

C’è un’ultima curiosità nell’addio cubano a Fidel.

Ieri, 4 dicembre, era il giorno dedicato a Santa Barbara. Secondo la religione afrocubana della santeria molto rispettata nell’isola, questa santa equivale all’immagine di Shangó nel pantheon dei santi africani: il protettore delle armi, dei fulmini, dell’amore, delle acque, il fustigatore dei malfattori.

La leggenda di Castro, secondo le credenze popolari, è stata sempre protetta da Changó. Quindi, la data di sepoltura può non essere stata casuale.