silvestri silvana
La memoria teatrale è elefantiaca. Non teme confronti né amnesie. Non le temeva nell’oralità spinta all’eccesso delle origini, non le teme a maggior ragione oggi con l’avvento delle nuove tecnologie. Molti fili della memoria e del ricordo s’intrecciano quando s’incontra uno dei protagonisti del teatro italiano del secondo novecento; appartenente al ristretto novero degli interpreti prediletti da Strehler, “ritrovata sempre più brava”, “adorata e adorabile”, per le sue ormai leggendarie regie; fortunatamente tramandate dal teatro televisivo, genere ibrido ancora non del tutto indagato. Peraltro praticato, tra gli altri e con esiti alti, da Carlo Battistoni, il “cine-occhio” strehleriano che le fu marito. Dunque, per capire l’importanza dei suoi ruoli, basta citare ad un tempo l’equilibrismo aereo di Ariel ne “La tempesta” o l’Elvira a lezione di teatro da Jouvet o ancora la presenza nella titanica ed estrema impresa del “Faust”. Non tacendo i tanti e amati Goldoni che ritroverà anni dopo ne “Il ventaglio” diretto da Ronconi, unica escursione nel mondo del regista che raccolse, dopo Strehler, la direzione artistica del Piccolo Teatro: “allora appartenevo già alla storia del teatro, soprattutto del suo fondatore e capivo che Luca voleva andare avanti, cambiare e servirsi di altri attori”. Giulia Lazzarini parla con franchezza, sincerità e come lei stessa ripete ogni qualvolta s’affronta un argomento scomodo, serio, persino scherzoso, con “disciplina e umiltà”. “Ci vogliono disciplina e umiltà” nel teatro come nella vita di tutti i giorni. E qualche anno fa chi scrive, scusandosi per l’intrusione, ha potuto vivere in prima persona durante le prove di registrazione del beckettiano “Dì Joe!” la costante applicazione al testo e ai misteri del teatro di questa straordinaria attrice. La Lazzarini, ad ottantuno anni, nonostante “una lombo-sciatalgia che mi tormenta” è costantemente in movimento, tra la sua casa milanese, “appartengo alla città e come tutti attendo l’Expo. Resto in attesa e intanto vedo ciò che sta accadendo. Meglio aspettare, non tacere né polemizzare”, e le repliche di “Muri – prima e dopo Basaglia”: “peccato non averlo mai incontrato. Nemmeno Strehler che era triestino credo l’abbia mai visto”. Questo è uno dei testi che le sono stati cuciti su misura da Renato Sarti, autore e regista anche di “Gorla fermata Gorla”:”è una lettura del tragico bombardamento del 1944. Morirono molti bambini. Ricordo ancora, io bimba di dieci anni, quei momenti terribili”. “Insomma, mi do alle cose piccole”. Non sembra però piccolo il ruolo che oggi la Lazzarini ha nel nuovo film di Nanni Moretti, “Mia madre”, nei cinema in questi giorni e in concorso all’imminente Festival di Cannes: “un film al femminile, talmente dedicato alle donne che Moretti ha preferito defilarsi e scambiare con Margherita Buy la propria autobiografia di figlio che perde la madre, con tutte le incomprensioni, le sofferenze della vita che se ne va via, la cronica mancanza di tempo, le pressioni del lavoro che allontanano dagli affetti, persino quelli più cari e la consapevolezza di sorprendersi ogni qualvolta sente parlare di lei, avvertendo la sensazione di trovarsi sempre davanti ad una sconosciuta. Non negandosi però il ruolo delicato del fratello premuroso e capace di accudire ascoltare la mamma”. “Abbiamo parlato. Sono tutte sue facce: di padre apprensivo con il figlio, di uomo che vive nel disagio, capace ora di rapportarsi in modo normale con gli altri. Finché è stato giovane ha sparato a zero su tutti, e con il tempo operando su di sé è rientrato nei ranghi. D’altronde mica si può andare su un’isola come ha fatto Bergman”.
Il tuo rapporto con il cinema, a differenza del teatro, per non parlare della televisione, sei stata scoperta ai suoi albori attraverso i primi sceneggiati, ha avuto sempre più il carattere del flirt occasionale che quello della relazione duratura. Come ti ha contattato Moretti?
Eh, sì. Ricordo benissimo il primo giorno di riprese. Era il 27 gennaio del 2014. Ma, l’avventura con Moretti è cominciata almeno due anni prima. Lo incontrai nei suoi uffici di Roma, mi parlò del film e ci lasciammo come si fa in queste occasioni con il “ti farò sapere”. Poi, per una serie di vicissitudini, non ultima la ricaduta della sua malattia, il film è stato spostato più volte.
In quell’occasione hai immediatamente sostenuto un provino?
No. L’ho fatto qualche tempo dopo. Mi aveva spedito una scena da fare con la Buy. La madre è malata ed è brutalizzata dalla figlia. Moretti mi dirigeva:”fai tre passi.. resta agganciata al letto …”. Sai, mi trovavo su un divano del Sacher. Pensavo mi farà un provino filmato, invece teatralmente parlando ho dovuto far tutto.
Cioè avevi il copione da imparare?
L’avevo studiato, ma mi ha modificato l’impostazione. Ha lavorato su di me per diminuzione. Il cinema è diverso dal teatro: è sottrazione, nei gesti e nella battuta, all’apparenza monotona, che poi però da senso alla parola. Talvolta risultavo troppo teatrale, mentre con Moretti resta tutto come dire soffuso. Sembra che ti scavi. Scava e scava vien fuori il personaggio. Sei in mezzo al vento, ma sei nel giusto.
Insomma, la “dittatura” dei ciak di Moretti ti è servita?
Ne abbiamo battuti tanti. La funzione del ciak in Moretti mi è sembrata simile al lavoro che si fa in teatro con le prove, di giorno in giorno. Soltanto che il cinema pretende di aver fretta e attraverso i ciak Moretti ti lavora come fossi una scultura. Ti aggiusta, ti toglie e aggiunge fino a far maturare il personaggio come ce l’aveva in testa.
E scritto?
Sì, ho provato a cambiar qualche parola, ma diceva “metti quelle” ed io seguivo. Poi me le sono con mestiere aggiustate. Bisogna porsi con “disciplina e umiltà” verso le cose e andare in profondità verso di esse. Così diceva Strehler.
A tal proposito, hai trovato similitudini tra i metodi di Strehler e quelli di Moretti?
No, nessuna similitudine. Strehler ammoniva di recitare stando di fianco, pensando in terza persona come Galileo, di essere epico per non diventare naturalistico. Moretti ti asciuga, ma non sei meno partecipe.
Rimpiango che Giorgio non sia riuscito a far cinema. I “Mémoires” di Goldoni sarebbero stati magnifici. Ma, Cinema e Teatro viaggiano con un tempo diverso e lui avrebbe avuto bisogno di troppo tempo per adattare il suo pensiero teatrale ai mezzi cinematografic
Eppure ha sperimentato il teatro in televisione
Gli piaceva molto non appena si accorse che poteva stare in mezzo agli attori. Guardare il teatro dal di dentro. Aveva troppo la visione dalla quarta parete per poter fare cinema. Forse, le tecnologie digitali di oggi che consentono di vedere subito i risultati lo avrebbero convinto a provarci e forse sarebbero venuti fuori film bellissimi.
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