La notizia non è il disastro ferroviario; è che nonostante il Sud sia condannato ad avere ancora lunghi tratti a binario unico e non elettrificati e convogli dismessi dal Nord (non è il caso di quelli coinvolti nella tragedia di ieri), non ci siano più incidenti e più morti da piangere.

Quei passeggeri sono stati uccisi dalle scelte politiche ed economiche che hanno voluto il Paese diviso in due, fra chi ha molto a spese di tutti, e chi manca del minimo e persino di tutto. Le ferrovie sono una traduzione perfetta del modo in cui si è concepito, costruito e mantenuto un “Paese duale” (Pasquale Saraceno, meridionalista nato a Sondrio).

La pochezza della rete ferroviaria del Sud, rispetto a Piemonte e Lombardia, fu usata come argomento per giustificare invasione e annessione del Regno delle Due Sicilie, da parte dei Savoia. Come dire: unire l’Italia, per renderla ferroviariamente alla pari (cosa che non dispiacerebbe ancora oggi; pur trascurando la disonestà del confronto, visto che il Regno napoletano era tutto sul mare, salvo un istmo di 190 chilometri e aveva puntato su trasporti marittimi, mentre le due regioni alpine avevano qualche obiettiva difficoltà a fare la stessa scelta). E sempre la ferrovia viene usata come paradigma dell’arretratezza del Regno delle Due Sicilie, che pure fu il primo Stato in Italia, a dotarsi di una linea ferroviaria, Napoli-Portici; ed aveva, a Pietrarsa, la più grande officina meccanica del tempo, tant’è che quando il Piemonte fece la sua ferrovia, comprò a Napoli la locomotiva.

Al momento dell’Unità d’Italia, delle 75 costruite da italiani, che trainavano convogli nella Penisola, 60 le avevano fatte i meridionali e 15 tutti gli altri messi insieme. Ma nelle nostre università si insegna che la Napoli-Portici era un giocattolo del re, serviva per portarlo al mare (da documenti visibili a tutti, nell’Archivio di Napoli, si apprende che in pochi anni viaggiarono circa 15 milioni di persone su quel treno; non si specifica se fossero tutti bagnini del re…).

Al posto del tricolore, potremmo avere i binari, sulla bandiera. Nel Sud conquistato si avventarono banchieri, affaristi. Alcune tratte ferroviarie erano già pronte e altre appaltate dai Borbone. La Napoli-Bari venne sottratta a chi doveva farla e riappaltata ai banchieri Adami e Lemmi, cugini e massoni. L’impresa finì in un mare di scandali, mazzette e manco un metro di ferrovia (per capire di cosa parliamo: a Garibaldi imperante e prima dell’arrivo dei piemontesi, si presentò Lemmi, con lettera di raccomandazione di Giuseppe Mazzini che garantiva per l’onestà del latore, perché «ove altri farebbe suo pro…, questi intende costituire le casse del partito»: l’Italia non era ancora nata, il metodo, sì).

Ancora oggi, un secolo e mezzo dopo, manca il collegamento fra le due più grandi città del Mezzogiorno continentale, con enormi danni economici, perdite di tempo: provate a immaginare se non ci fosse linea diretta fra Milano e Torino.

Se la pochezza ferroviaria, per stare ai principi risorgimentali, dà diritto d’invasione, oggi il Mezzogiorno d’Italia può essere legittimamente occupato da chiunque.

Nel Paese “unito”, puoi percorrere 700 e rotti chilometri in due ore e mezza e trovi un treno ogni venti minuti o poco più; oppure fare circa 300 chilometri, con l’unico convoglio della giornata: parti alle quattro del mattino e dopo una mezza dozzina di cambi (vado a memoria: sono di più?), arrivi a destinazione alle 18,30; oppure, nel 2016, quando si parla di trasporto molecolare, puoi metterti in fila con gli altri che aspettano da 155 anni il treno per città non ancora raggiunte dalle Ferrovie dello Stato. La prima esperienza la fai sulla tratta Milano-Roma; la seconda in Sicilia; la terza in Basilicata (anzi: non la fai), a Matera.

Un Paese non coloniale investirebbe per colmare di divario. Invece si sono buttati 1800 milioni di euro per il Freccia Mille, chiamato Mennea, La Freccia del Sud (e che a Sud non arriverà mai), per risparmiare 15-20 minuti; ma sulla carta: di fatto non è così. Sulle linee del Mezzogiorno i treni dismessi dal Nord vanno talvolta alla velocità dei regionali, ma costano anche 7-8 volte di più; per andare da Roma in Puglia, un bacino di 10 milioni di utenti, può non bastare cercare un posto tre giorni prima e ci sono solo tre convogli decenti.

La legge che ha regionalizzato i trasporti locali, ha sancito l’apartheid ferroviaria: solo Regioni del Nord o del Centro possono permettersi di spendere per le tratte interne. Al Sud, alcune compagnie possono offrire l’ebbrezza di 19-20 chilometri all’ora, sui binari a scartamento ridotto che l’Italia pose nelle colonie africane. Il governo attuale: appena insediato, stanziò 4560 milioni di euro per le ferrovie; 4500 da Firenze in su e 60 da Firenze in giù. Con l’alta velocità che da noi costa 6-7 volte a chilometro, rispetto a Francia, Spagna.

Questa è l’immagine dell’Italia, anche in altri campi. Con il decreto Carrozza (governo Letta), per dire, mostra Gianfranco Viesti in “Università in declino”, in pochi anni le università del Sud chiuderanno. E anche qualcuna del Nord. Ma avremo il Centro Human Technopole a Milano, a 150milioni all’anno. Mentre, da sei anni non si riesce a far ritirare dal ministero dell’Istruzione, le «indicazioni per il curricolo» emanate dall’allora ministra Gelmini, con cui, dall’insegnamento della letteratura sono stati esclusi poeti e scrittori meridionali, pur se premi Nobel come Quasimodo e Deledda.

I morti di Andria sono vittime di una guerra razzista contro i meridionali. L’abbandono ferroviario è solo uno dei modi in cui si manifesta. Se vi sembra eccessivo, prendete il treno per Matera, o per Trapani, o per Crotone. E dio vi accompagni.