Puntualmente ogni libro di Eraldo Affinati costringe a una resa dei conti con se stessi e con la propria pratica del mondo. E ogni volta si impone una verifica di quello che è il rapporto tra pensiero e l’azione. Certo è che con questo autore non si può barare, anche perché la sua scrittura è il risultato tangibile di un processo di natura etica e conoscitiva che con limpidezza scientifica segue passo passo il percorso che conduce l’essere umano al sentimento del proprio essere nel mondo e all’assunzione del compito che a quell’essere nel mondo è connaturato.

Nel nuovo libro, Vita di vita (Mondadori, pp. 165, 17,00), viene narrato ancora una volta un viaggio. Questa volta in Gambia, paese d’origine di Khaliq, uno degli studenti della Città dei ragazzi, che dopo vari anni trascorsi in Europa è tornato a casa per cercare la madre che lo aveva lasciato piccolissimo in un campo profughi. Il ‘porof’, come viene chiamato, si era impegnato a fare visita alla madre di quel suo straordinario alunno e la promessa viene mantenuta, anche se gli altri studenti non ne capiscono la ragione. Kenan, congolese di Acilia, che adora il suo insegnante, gli chiede: «A professò, che cce vai a ffà? Lì so’ tutti negri e so’ pure poveracci!»

Naturalmente Khaliq è un ragazzo ‘difficile’. Il suo italiano – riportato ampiamente nel romanzo – è a dir poco approssimativo, il suo curriculum probabilmente da brivido: ha vissuto gli anni dell’infanzia esposto alla fame, alla sporcizia, ai soprusi di ogni genere: «aveva imparato il mansionario del Serengeti. Che poi sarebbe quello di Tor Bella Monaca». Per Khaliq, infine un colpo di fortuna: incappare nelle mani di una assistente sociale che lo indirizza a un centro di accoglienza e poi a scuola. Qui l’incontro con l’autore e la scommessa: se il ragazzo ritroverà sua madre, il ‘porof’ andrà a trovarli entrambi.

Affinati scrittore e insegnante nella Città dei ragazzi (che accoglie orfani e ragazzi dal passato burrascoso) come di solito condivide con il suo lettore una esperienza che è frutto di una scelta volontaria. Non si tratta di una quête, ma di un appuntamento con un luogo che lo riguarda da vicino. È come se ogni volta il narratore fosse chiamato a confrontarsi da vicino con un passato incombente con il quale è necessario fare i conti. E tuttavia niente di personale accade in questo come negli altri viaggi. È un appuntamento con la storia che Affinati sente di dover onorare per sentirsi un essere umano più vero. Si può ripetere quello che l’autore aveva scritto a proposito di Mario Rigoni Stern, lo scrittore cui Affinati è è più vicino e del quale ha curato per Einaudi l’edizione delle Storie dall’Altipiano: la sua scrittura «possiede … una misura universale … Le (sue) pagine, pur rappresentando esperienze personali, hanno un valore simbolico profondo che va oltre i fatti».

Sare Gubu come Jàsnaja Poljana, Asiago, Berlino, Londra, New York, sulle tracce di Tolstoj, Rigoni Stern, Bonhoeffer, Foscolo, Ground Zero, come Auschwitz dove Affinati ha incontrato il passato di sua madre. Anche in Gambia avviene un incontro necessario, per lui e per tutti. Andare in Africa «dove tutto è cominciato» significa mettersi faccia a faccia con la madre del suo studente ma anche viaggiare a ritroso rispetto alla propria coscienza e ritrovare la radice della specie, insieme con la paternità e la maternità quale condizione simbolica perenne che si rinnova in ogni individuo. E poi scrivere e mettere in comune l’esperienza di qualcosa che se dimenticato graverebbe come una colpa atroce sul genere umano tutto.

Memoria come responsabilità e conoscenza come atto dovuto, non solo rispetto a un ragazzino di cui la storia altrimenti non manterrebbe la minima traccia, ma come processo di presa in carico di una situazione che deve passare dalle nebbie della vaghezza alla consapevolezza di chi si assume il compito di tenere vivo il ricordo di qualcosa che non c’è più. Questa scrittura è infatti soprattutto forza d’animo e determinazione. La linea è certamente quella che da Verga porta a Fenoglio, per un verso, e dall’altro quella che da Malinovski (citato nel corso della narrazione) conduce al miglior giornalismo di inchiesta e di testimonianza non embedded. Questo il senso del viaggio del narratore/professore che deve portare in salvo tanto il ragazzo e sua madre quanto gli altri studenti a lui affidati. Solo portando in salvo loro salverà anche se stesso.

Arrivato a Sare Gubu, il villaggio nel quale Khaliq ha ritrovato la madre e i familiari, Affinati si comporta come un etnologo, che vuole capire il sistema di vita e di valori di un villaggio che si regge ancora completamente sulle tradizioni orali e sul fondamento di una memoria collettiva le cui origini si perdono in un tutto indistinto. Anche nei loro confronti il professore/etnologo attua la pratica dell’azione sulla memoria personale e collettiva nell’intento di far crescere il grado di consapevolezza degli abitanti del villaggio. E che anche lì sia accaduto qualcosa di decisivo lo testimonia il fatto che il nome del ‘porof’ viene imposto all’ultimo nato nel villaggio.

La permanenza è breve e tanto il professore quanto il ragazzo devono fare ritorno in Italia. Anche questo elemento conferma una modalità restata invariata negli anni. Affinati va in un luogo nel quale è richiamato da una ragione specifica, entra in una dimensione più ampia che è quella della peculiarità del luogo resa ancora più profonda da letture, documentazioni e domande che il viaggiatore ha portato con sé e che diventano la base su cui poggiare i passi del suo cammino, ma anche la guida della sua condotta e la bussola della sua esplorazione. In questo caso l’autore ha portato con sé i testi dei condannati a morte della resistenza e le lettere scritte dagli studenti dal fronte durante la prima guerra mondiale, testi assegnati come lettura estiva ai suoi ragazzi, ma anche parole che lo sostengono nel difficile viaggio verso un paese sconosciuto dell’Africa, da cui però è necessario ritornare.

Nessuna sbavatura liricizzante, neanche quando si trova di fronte la notte africana, cui corrisponde un richiamo alla lettera scritta da «Giovanni» il 12 agosto 1915: «La mia vita passò come un sogno. Arrivederci in paradiso». Il senso di questo libro sta proprio nel richiamo imperioso a vigilare sulle giovani generazioni, cui vengono proposti esempi di umanità e lucido coraggio: «I ragazzi sbandati. I ragazzi perduti. I ragazzi feriti … Parliamo dell’umanità zoppa, dei sogni guasti del pianeta … Chi taglia le gambe alle generazioni che vengono dopo di lui commette un crimine destinato a restare indelebile. Avvelena i pozzi. Sparge sale sulla piaga».

Anche in Peregrin d’amore, incontri con i luoghi dei letterati (2010), si ripete la modalità della visita ai luoghi simbolo di uno scrittore. Insomma la letteratura è per Affinati innanzi tutto lettura viva che dà senso alla vita ma anche azione viva. Un modello di insegnamento che è anche un modello di passione letteraria. Inconcepibile leggere o far leggere Tolstoj o Dante e poi chiudere tutto senza che nulla sia cambiato. Andare a Jàsnaja Poljana o a Ravenna è portare se stessi al cospetto dell’autore che con la sua opera ha reso uomo quell’uomo. Atto dovuto di riconoscimento di un valore che non deve essere dimenticato. Questo il senso anche della visita alle Fosse Ardeatine che la classe del professore compie in conclusione del romanzo e questo il significato dell’omaggio reso dai giovani borgatari alle tombe di quei martiri che, giovani come loro, non vollero sottrarsi al compito atroce che la storia in quel momento caricò sulle loro spalle.