Pecore da farcire, urne da riempire. Il team di Abdullah Abdullah, il candidato alla presidenza che accusa di frode i membri della Commissione elettorale indipendente, oggi ha reso pubbliche alcune intercettazioni telefoniche. Sarebbero la prova che il segretario della Commissione, Ziaulhaq Amarkhil, avrebbe orchestrato una truffa su scala industriale per favorire lo sfidante di Abdullah, Ashraf Ghani.

«Porta le pecore in montagna e riportale indietro ripiene», recita il passaggio di una delle conversazioni tra un anonimo membro dello staff di Ghani e il funzionario Amarkhil. Un messaggio in codice, accusa Abdullah Abdullah, per indicare le urne da riempire di voti falsi, a favore dell’ex ministro delle Finanze Ghani.

In un’altra conversazione, Amarkhil parla con Safi, un alto funzionario della Commissione elettorale nella provincia di Laghman, e ancora una volta invita a «farcire in modo appropriato e senza esitazioni le pecore». In un’altra conversazione, Amarkhil (il presunto Amarkhil) parla con un funzionario della Commissione della provincia nord-occidentale di Faryab, al confine con il Turkmenistan. «Qual è il problema?», chiede Amarkhil.

«Che in ufficio stanno tutti dall’altra parte», replica il funzionario. «Licenziali, e rimpiazzali con uzbechi e pashtun», suggerisce Amarkhil. La competizione elettorale in Afghanistan è anche – in parte – una competizione tra comunità etniche: Abdullah raccoglie voti e consensi nella comunità tajika e hazara, Ghani in quella pashtun e, tramite il suo «vice» Dostum, in quella uzbeca. In un’altra registrazione Serat, assistente di Amarkhil, parla invece con Ehsanullah Qamawal, già responsabile delle dogane con il Pakistan nella provincia di Nangarhar e coordinatore della campagna per Ghani in quella zona del paese. Serat dice che il «prezzo delle pecore è salito in questi giorni», e Qamawal assicura l’interlocutore di avere a disposizione uomini fidati.

Anche in questo caso, torna la metafora-messaggio in codice delle pecore da portare in montagna e farcire. Amarkhil, sotto pressione, respinge al mittente le accuse, sostiene che a parlare non è lui, continua a rivendicare la neutralità e la professionalità sua e della Commissione per cui lavora, si dice fiducioso che Karzai non lo licenzierà. Le intercettazioni però parlano chiaro. Se davvero si tratta di Amarkhil, le cose si mettono male, per lui e per l’intero processo elettorale.

Lo staff di Abdullah insiste nel chiedere le dimissioni di Amarkhil e alza il tiro, chiedendo la ripetizione del voto almeno nelle zone orientali del paese, quelle pro-Ghani, dove la percentuale di elettori che hanno preso parte al ballottaggio avrebbe superato anche del 200% la percentuale delprimo turno del 5 aprile. Il presidente Karzai, chiamato in causa da Abdullah, l’altro giorno ha invitato le Nazioni Unite a sbrogliare la matassa.

In queste ore si accavallano le consultazioni tra i rappresentanti della missione dell’Onu in Afghanistan e i due candidati. Difficile però immaginare la soluzione possibile. Silurare Amarkhil dalla Commissione elettorale equivale ad ammettere le frodi. Ammettere le frodi vorrebbe dire riconoscere che la versione fornita dai media internazionali dopo il ballottaggio del 14 giugno era solo retorica: «il primo trasferimento democratico di potere nella storia afghana» sarebbe invece una bella truffa.

Probabilmente anche nel campo di Abdullah ci sono state irregolarità, brogli, pressioni indebite. Ma Abdullah è stato più abile di Ghani, per ora: ha raccolto le prove (non si sa come) e le ha rese pubbliche. Un elemento che getta benzina sul fuoco: sono due giorni che, qui a Kabul, i sostenitori di Abdullah scendono per strada, con cortei, manifestazioni e le tende piantate in alcuni punti strategici della città.

Quale sia la sorte personale di Amarkhil, il caso «intercettazioni» avrà delle conseguenze serie. Il melodramma elettorale afghano è solo all’inizio. E sembrano davvero fuori luogo le repliche, appena arrivate, del team di Ghani: «le intercettazioni senza autorizzazione sono illegali, occorre fare luce», mandano a dire.

Il 5 aprile, giorno del primo turno delle presidenziali, chi scrive ha visitato alcuni seggi elettorali fuori Jalalabad, nella provincia di Nangarhar, proprio con il team di Qamawal. A pranzo ci siamo fermati nella casa di un notabile locale. Nel corso dell’intervista, Qamawal ha lodato le virtù di Ghani. Poi mi ha detto che, se avessi voluto votare anch’io, ci avrebbe pensato lui.