Nelle settimane scorse il presidente Ashraf Ghani si è recato a Khost, provincia orientale dell’Afghanistan, al confine con il Pakistan.

Ha incontrato i familiari delle vittime dell’attentato del 12 luglio, che ha provocato la morte di 27 civili, inclusi 12 bambini, e quella di 6 uomini delle forze di sicurezza afghane.

Si è congedato rassicurando la popolazione: «garantiremo la vostra sicurezza». Il giorno successivo il vice-presidente ed ex warlord Abdul Rashid Dostum, fondatore del partito Jumbesh-e-Milli, ha preso un volo per la provincia nord-occidentale del Faryab.

Con sé, ha portato alcuni uomini della sua «milizia» personale. Ha promesso che in pochi giorni riporterà la calma in quell’area, dove la presenza delle forze anti-governative si fa ogni giorno più ingente e minacciosa.

I due episodi raccontano lo stato delle cose in Afghanistan: la guerra continua, tutti i giorni, e colpisce ovunque. A rimetterci, i civili. Secondo i dati delle Nazioni Unite (Unhcr), il conflitto ha costretto un milione di persone (circa il 3% della popolazione) a migrare all’interno del paese.

Lo scorso anno, sarebbero state 180.000 le persone costrette ad abbandonare la propria casa, il numero più alto da quando la guerra è cominciata, nel 2001, e destinato ad aumentare quest’anno.

La maggior parte di questi spostamenti riguarda l’area del nord-est. La provincia più colpita, quella settentrionale di Kunduz, al confine con il Tajikistan.

Secondo l’ultimo rapporto della missione delle Nazioni Unite a Kabul, anche quest’anno il numero delle vittime civili (feriti e morti) è superiore a quello dell’anno precedente.