Gli 88 anni di Agnès Varda sono un dato che nulla dice della vitalità e della curiosità di una regista che è stata definita la «nonna» della nouvelle vague. A Palermo per ricevere l’Efebo d’Oro alla carriera per la 38esima edizione del premio, Varda è generosa nel raccontare al pubblico del Cinema De Seta i suoi sessantadue anni di cinema. Non ama però il termine di carriera, che le sembra più adatto ai diplomatici: preferisce parlare di un percorso fatto di incontri, caso, passioni, insofferenza nei confronti delle forme e dei formati standard, e soprattutto una grande esigenza di libertà. Ai ragazzi che filmano la nostra conversazione non può fare a meno di dare alcuni consigli, con la stessa voglia di condividere un’esperienza che caratterizza i suoi film: «Vi insegno una cosa: per filmare una signora la telecamera va messa un po’ più in alto, anche solo 10 centimetri fanno una grande differenza, è una questione geometrica. Metterei la luce lì, e l’altra da quella parte, altrimenti non funziona».

Sta terminando proprio in queste settimane un nuovo lungometraggio. Di che si tratta?

È la prima volta che faccio una co-regia, lavoro con un artista che si chiama JR, ha cominciato come street artist nei metrò e adesso ha un progetto che si chiama Inside Out, propone a dei gruppi di persone di mettersi in immagine e rappresentarsi da sé. Le cose che fa sono molto belle, ci siamo incontrati e ci siamo detti di fare un film insieme. Abbiamo fatto dei giri in Francia col suo camion-foto e siamo stati nelle campagne, nelle fabbriche, vicino al mare, ad ascoltare le persone. È quello che ho sempre amato fare: mi piace il documentario perché ogni persona che incontri è come tutti gli altri e nello stesso tempo è unica, ed è una sorpresa continua che talvolta attraverso un film si riesce a tirare fuori, proponendo allo spettatore l’incontro con persone che magari da solo non avrebbe mai visto.
C’è la bellezza di fare cinema, ma anche il risultato di incidere sulla coscienza dell’umanità, per usare termini un po’ magniloquenti. In realtà è ben più semplice: si tratta di fare dei piccoli incontri, essere in pace con dei piccoli incontri. Il film racconta anche l’amicizia che si è sviluppata tra un ragazzo di 33 anni e una signora di 88 anni, ci siamo detti che 55 anni di differenza sono già quasi un tema da raccontare, ed era interessante anche per noi capire come battezzare questa esperienza di co-realizzazione. Non è una storia sentimentale d’amicizia e d’amore ma una storia di lavoro fatto in due, che per me ha funzionato molto bene.

Dice spesso di essere una cineasta ai margini, lo è sempre stata, anche se oggi i margini sono più stretti. Anche Godard, che con lei condivide un pezzo importante di storia del cinema, è totalmente isolato.

Forse io e Godard abbiamo continuato a fare un po’ di ricerca, proviamo a sperimentare qualche cosa in ogni film. Il suo ultimo Adieu au langage è sorprendente, è il più bel 3D che abbia mai visto, ed è strano visti i mezzi che hanno tutti quegli altri blockbuster. Ci siamo sempre posti delle domande: come si possono mescolare fotografia e cinema, colore e bianco e nero? Guardate Notte e nebbia: Resnais è stato il primo a dire che il presente andava filmato a colori e il passato in bianco e nero. Abbiamo tutti cercato di fare in modo che la scrittura, il linguaggio cinematografico avesse un rapporto con quello che volevamo fare. Quando ho fatto Les glaneurs et la glaneuse era la prima volta che utilizzavo una videocamera, perché quando ti avvicini a persone che sono in situazioni precarie non puoi arrivare con una grossa cinepresa: un’équipe da grande cinema non può avvicinarsi ai poveri. È per questo che tutti i documentaristi – pensate a Luciano Emmer, Frederick Wiseman, Nicolas Philibert – provano a essere discreti, modesti, in ascolto.

Qual è il ruolo che il cinema può avere ancora oggi per la società?

Dopo Les plages d’Agnès ho fatto una serie tv su ARTE, Agnès de ci de là Varda, avevo deciso di filmare con la mia telecamera la gente per strada, i musei, gli incontri ogni volta che andavo a presentare dei film o che viaggiavo. E in ogni episodio volevo passare del tempo con un artista come Boltanski, Pierre Soulages, Pierrick Sorin, artisti non necessariamente così noti al grande pubblico. Questa piccola serie mi ha fatto bene perché mi sono detta che esiste un modo di fare cinema che riconcilia l’arte e la vita, le persone che sono al mercato e quelle che sono al museo. Ecco il mio desiderio: che vita privata, arte, museo, commercio non siano cose separate ma tutto un insieme.
L’infelicità del mondo e il piacere di ogni istante sono un tutt’uno. E credo che il cinema – o almeno, il mio – debba raccontare questo miscuglio un po’ insopportabile. È per questo che in quest’ultimo film, che sarà piuttosto allegro e si chiamerà In camion o forse AV – JR, abbiamo deciso di non occuparci dell’orrore del mondo. Mentre giravamo ci sono stati gli attentati al Bataclan, gli attentati in Belgio, ogni giorno c’era qualche incidente dei migranti. Non tratteremo di tutto questo, c’è già la tv che lo fa, mi sono detta che forse una risposta al caos e all’infelicità consisteva nel dire che il cinema e l’arte esistono anche per dare un po’ di pace, porre qualche domanda, mettere un po’ di distanza non per guardare dall’alto, ma per misurare meglio le cose. Abbiamo provato a trasportare nell’incontro con persone diverse il nostro buonumore, quello di una vecchia signora e quello di un signore giovane.

Incontrare le persone ha un senso anche politico in una Francia come quella odierna, bloccata sulla sua identità e sulla rappresentazione che si ha delle «persone vere», come dice Sarkozy…

Sono io a girare con le persone vere, ma in modo diverso da come dicono i politici. Prendo un esempio dal film: tutti parlano delle pensioni. A che età bisogna andare in pensione? Chi la paga? Bisogna lavorare di più? I mestieri più difficili devono terminare prima? Abbiamo filmato un operaio in una fabbrica al suo ultimo giorno di lavoro che ci ha detto: «È come se fossi sull’orlo di un precipizio e stessi per cadere». Mi sono detta che parliamo sempre di pensioni ma non abbiamo mai capito davvero che un operaio che lavora da trent’anni in una fabbrica, anche se sfruttato e maltrattato, il giorno in cui lascia la fabbrica avrà un momento in cui si sentirà completamente perso. Mi sono detta che forse un cinema attento può stare dalla parte di quello sguardo sperso. Non abbiamo mai abbastanza immaginazione per comprendere fino in fondo gli altri. Affrontiamo i problemi per blocchi: i pensionati, i non pensionati, l’età della pensione… Lì c’è un uomo che sta per andare in pensione e ci guarda in modo straordinario, e mi sono detta che non ci avevo mai pensato prima.
Sono attratta naturalmente dalle persone reali, da quelli che non vengono ascoltati, da quelli che sono un po’ ai margini perché si rivoltano, perché sono poveri, perché sono asociali, perché la società li mette da qualche parte e nessuno li ascolta. Non voglio porre riparo a tutti i torti, non voglio dare la parola a tutti quelli che non ce l’hanno, non è questo: ma un po’ per caso, un po’ per una ricerca personale, mi trovo a dare la mano a persone che non sempre sono state ascoltate, o a temi piccoli e marginali che hanno senso per me e che provo a condividere. C’è una dimensione importante del suo lavoro che ha a che fare con la memoria, lei è fotografa e torna spesso sulle foto. È meno noto che è una dei registi che più si interessa alle edizioni in dvd dei suoi film, che cura personalmente creando dei bonus particolarmente interessanti, spesso tornando sui luoghi delle riprese e rincontrando le stesse persone.
Il documentario pone un problema, perché ci si avvicina a delle persone e poi le si abbandona. Tornando a distanza di qualche anno o facendo un bonus si prova a capire come si situa il film nel tempo e mi sembra di creare una continuità, provando a dare a quelle persone un’esistenza nel cinema e a fare in modo che non sia effimera. È sempre l’idea che tutto quello che facciamo è transeunte. Nel film con JR creiamo delle grandi immagini su carta da affiggere e siamo consapevoli del fatto che dopo poco tempo non ci saranno più. Ne abbiamo fatta una in riva al mare e la sera stessa il mare l’aveva portata via. Proviamo nello stesso tempo a mettere dei piccoli punti di riferimento per il pensiero, per l’immaginazione, pur consapevoli che è tutto effimero, che siamo registi di un giorno, di un mese, del posto in cui siamo con le persone con cui siamo. Più invecchio e più mi rendo conto che ho un piccolo ruolo da regista ma che nello stesso tempo è tutto talmente impalpabile nel grande movimento del mondo: bisogna accettare questo ruolo modesto e mantenere comunque la schiena dritta.

Tornando ai suoi incontri, condivide con Chris Marker la passione nei confronti del gatto, che è anche il simbolo della sua casa di produzione, Ciné-Tamaris.

Ho conosciuto Marker nel 1953-54, lui era amico di Alain Resnais che ha montato il mio primo film, La pointe courte, nel 1954. Poi siamo diventati molto amici, l’ho aiutato a fare alcune piccole cose per Dimanche à Pekin. Provava un orrore tale nei confronti dei media e della pubblicità che aveva deciso di farsi rappresentare da un gatto che si chiama Guillaume-en-Egypte, e negli ultimi vent’anni non voleva nemmeno rispondere, mostrava il gatto e dava a lui la voce, era un suo gioco. Anch’io ho sempre avuto dei gatti, il logo della mia società è un gatto che fa l’occhiolino e provo a mettere sempre dei gatti nei miei film. La cosa che mi piace dei gatti è che sono un po’ indifferenti. Mi piace che siano autonomi. Non si può dire che i gatti siano domestici, abitano nelle case ma non gli interessa, anche se si comportano bene. E la riservatezza e il mistero dei gatti mi piacciono molto. Molti amano i cani, io non li capisco, sono troppo dipendenti dai padroni. Amo la bellezza dei gatti, il loro mistero.