Bernardo Clesio (di Cles) ci guarda serio e un tantino arcigno dal ritratto di Joos van Cleve nella Galleria Corsini di Roma, e ha le sue ragioni. Uomo dottissimo, mecenate e fine politico, il principe vescovo di Trento si trovò tra l’incudine e parecchi martelli nel periodo per niente tranquillo che va dal 1514 al 1539, tra i prodromi della Riforma luterana, il suo deflagrare, e il Concilio di Trento in fase iniziale. Fu lui a promuovere la costruzione del «Magno Palazzo» di Trento che, affiancandosi all’antica dimora di Castelvecchio, fece fare il salto di qualità alla città. A decorarlo furono chiamati pittori «stranieri» aggiornatissimi come i due Dossi da Ferrara, Romanino da Brescia e Marcello Fogolino da Vicenza. Quest’ultimo si trattenne a lungo nella cerchia di Bernardo Clesio e proprio a Cles decorò per il nipote ed erede di questi, Ildebrando, il palazzo di famiglia, oggi detto Assessorile.

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Una scelta «singulier»
L’edificio (restauro ultimato nel 2009) ha una facciata gotico-rinascimentale e un interno articolato in ambienti dai solai bassi, adatti ai climi rigidi, decorati con fregi alla moda con grottesche dipinte da Fogolino: volute vegetali corpose ed esseri deformi e seducenti, dalle pose bizzarre o devotissime.
In queste belle sale, scelte con un’intuizione felice, è possibile visitare fino al 9 ottobre la mostra Irregolari. Sguardi laterali nell’arte italiana da Antonio Ligabue all’Atelier dell’Errore, a cura di Daniela Rosi, da molti anni attiva nel campo dell’arte marginale, direttrice del Lao (Laboratorio Artisti Outsider) di Verona nonché dell’Osservatorio nazionale per l’Outsider Art, nato all’interno dell’Accademia di belle arti sempre nella città scaligera. Mostra «coraggiosa», come ha spiegato anche l’assessore alla cultura di Cles in una delle introduzioni del catalogo, perché si occupa di un tipo di arte la cui definizione critica è molto scivolosa. «Irregolari» invece che «outsider» (o «brut» o «singulier»): è già una scelta, una posizione critica. Il termine è stato introdotto da Bianca Tosatti negli anni ’90 con l’intento di sganciare quest’arte dalle «intromissioni psichiatriche, infantilistiche, popolaristiche, sottese ai termini Brut e Naïf», ed è ormai largamente utilizzato per identificare le opere (e gli autori) al di là dello stigma del disagio sociale. Ma se nella storia dell’arte nessuna definizione è scontata (si pensi solo a quella di manierismo) la sostanza magmatica e personalissima di questo tipo di produzione continua a tenere tutti coloro che se ne occupano in una posizione perenne di scacco, di impasse, di sguardo «laterale», appunto.
È o non è arte? (ammesso che questa domanda abbia ancora un senso), chi è un «outsider» e chi è un «insider»? Basta a fare la differenza il fatto che questi artisti siano tutti autodidatti? Ha senso una mostra antologica?

Il sasso parlante
Sono raccolti in rassegna più di venti autori le cui opere sono in dialogo serrato e a volte spiazzante (ma quest’arte perturbante e spiazzante lo è per definizione). C’è naturalmente Carlo Zinelli che, a differenza di Antonio Ligabue, molto noto in Italia ma non all’estero, è diventato artista internazionale grazie all’ingresso nella collezione di Jean Dubuffet, nume tutelare dell’art brut di alcune sue opere. Di recente, Zinelli ha trovato posto con alcuni lavori nella 55/ma Biennale di Venezia, pur se in un evento collaterale, ai Giardini. La sua vicenda creativa, esemplare e per molti versi vicina a quella di altri artisti presenti in mostra, si dipana su uno sfondo di vita poverissima, di stenti e malattia, di disagio esistenziale cui la società circostante risponde sempre allo stesso modo, con lo stigma prima e con la reclusione poi. Zinelli venne internato nel 1947 nel manicomio di San Giacomo alla Tomba di Verona ricevendo le stesse cure (psichiatria pre-basagliana) degli altri internati. Ma ebbe la fortuna di incontrare Michael Noble, uno scultore scozzese dalla vita avventurosa, che nel 1957 aprì nel manicomio un atelier a sue spese.
Carlo, che disegnava sui sassi e dove poteva, fu finalmente libero di esprimersi e lavorare comodamente. A Cles sono presenti una decina di sue tempere con asini da guerra e da lavoro, carri, navi, uomini indifesi e omaccioni guerrafondai, esplosioni di granate, inserti di scrittura onomatopeica o di parole in libertà. Assolutamente inconfondibile. Come tutti gli altri artisti, del resto.

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E questa forte riconoscibilità, comune a tutti gli «irregolari», attiva un rapporto emotivo fortissimo, da cui spesso si sprigiona l’interesse critico, come raccontato in maniera mirabile da Eva Di Stefano e che, per una volta, salta a piè pari la vexata quaestio del rapporto tra biografia e opera. Per molti di questi artisti la biografia «è» l’opera e l’autonarrazione per immagini può essere il racconto a episodi della propria vita, come per la pittrice Bonaria Manca, o riflettersi nel microcosmo della realtà che Francesco Giombarresi si vede attorno e che dipinge in miniature di pochi centimetri, minuscola ma infinita.
Ci si narra evocando figure dell’anima come le grandi, incombenti immagini femminili dallo sguardo ipnotico e dalla forza prorompente dipinte da Pietro Ghizzardi su cartone con il nero della fuliggine della canna fumaria, o ancora gli esseri diafani, sognanti, estremamente poetici, che ricordano un po’ Chagall e un po’ Picasso, di Agostino Goldani, anche lui come Zinelli profondamente ferito dall’esperienza della guerra.
Figure dell’anima che si fanno arte, non studiata, non copiata, scaturita per bisogno urgente o per auto-terapia (Goldani chiama le sue opere «arte disperata»). Si può evocare per immagini anche un mondo che si è abitato ma che si è perso in un subitaneo rovescio di fortuna, come fa con le sculture di carta e materiali di recupero Annamaria Tosini, creazioni che ricordano, come un’eco in scala minore, gli effimeri barocchi.

Dentro la ragnatela
Poi ci sono artisti dalla straordinaria perizia tecnica come Egidio Cuniberti che con stecchi di legno da gelato costruisce mobili bellissimi e sagome di ragazze con fiori e abiti complessi, o Caterina Marinelli che dà forma a cani in creta di prodigiosa mimesi.
Questa mostra emozionante ha un percorso cronologico: da Ligabue ad Alessandro Monfrini, giovane writer di Mantova che ha inventato un nuovo linguaggio con il mezzo consueto, lo spray: è sua l’immagine-logo della mostra, l’inquietante Cappuccetto rosso e il lupo. E infine, davvero per ultimo, arrampicato sul palazzo accanto a quello Assessorile, incombe su di noi un enorme ragno azzurro, L’immane RagnoFerro di Curnasco, prodotto dai ragazzi dell’Atelier dell’Errore, laboratorio di arti visive per la neuropsichiatria infantile presso l’Azienda Sanitaria Locale di Reggio Emilia, che resiste (è il caso di dirlo, visto che questi laboratori sono oggi in grave crisi e molti di essi sono stati chiusi) dal 2002.
A questo aereo e poderoso ragno, come auspica Daniela Rosi nella sua introduzione alla mostra, il compito di «oltrepassare i confini… e tessere una nuova rete».