Othman Mekri è rassegnato. «La settimana scorsa hanno incendiato l’auto di un mio amico, ora hanno crivellato di colpi la mia, guarda qui che roba, hanno bucato il serbatoio della benzina. Non se ne può più di questa gente, ma come facciamo a buttarla fuori dal campo». Quella “gente” sono i jihadisti del gruppo di Bilal al Bader, associato ai qaedisti siriani di Jabhat al Nusra e parte della coalizione di organizzazioni salafite armate, vecchie e nuove, che hanno messo radici nel campo profughi palestinese di Ain al Hilwe (Sidone). Othman l’altra notte aveva parcheggiato la sua automobile a pochi metri dall’ospedale al Nidaa. In quella zona si è scatenato l’inferno. «Intorno alle 2 – ci racconta – due di quelli che stanno con al Bader, in sella a una motocicletta, sono passati a tutta velocità e sparando in aria davanti ad una postazione di Fatah (la componente principale dell’Olp, che fa capo ad Abu Mazen, ndr). Quelli di Fatah hanno risposto al fuoco e sono cominciate sparatorie continue tra le due parti. È finita all’alba».

C’è stato un solo ferito ma in strada i segni della battaglia andata avanti per ore sono evidenti. Decine di bossoli sparsi ovunque, automobili e negozi centrati dalle raffiche. Le scuole sono chiuse. Però è finita anche questa volta e senza conseguenze gravi per le persone. Gli abitanti cominciano ad uscire di casa e i commercianti ad alzare le saracinesche. «Siamo stanchi, non sappiamo come venirne fuori» ci dice Tamer, 23 anni, in sella a una bicicletta «ogni volta rischiamo la vita». Decine di donne, madri e nonne, si sono riunite davanti alla moschea al Nour per chiedere che venga fatto qualcosa di concreto per impedire queste sparatorie che vanno avanti da anni, da quando si è moltiplicata la presenza delle formazioni jihadiste e salafite armate ad Ain al Hilwe. Prima Usbat al Ansar e poi tutti gli altri fino al gruppo di Bilal al Bader.

Di al Bader lui non si sa molto. Entra in scena una decina di anni fa, quando aveva 17 anni, come “ufficiale” di Fatah al Islam, l’organizzazione proto Isis formata da arabi e da alcuni palestinesi che nel 2007 proclamò l’Emirato islamico nel campo profughi di Nahr al Bared (Tripoli) provocando l’intervento dell’Esercito libanese che spianò con le cannonate metà delle case palestinesi. Al Bader sfuggì alla morte e all’arresto. Svanito nel nulla per un lungo periodo, qualche anno fa è riapparso in Ain al Hilwe, per fare la guerra prima alle organizzazione palestinesi vicine alla Siria, come la Saiqa e il Fronte popolare, e successivamente anche a Fatah. Infine ha preso il controllo parziale di due zone del campo, Taware e Tamire, alleandosi ad intermittenza con le Brigate Abdullah Azzam, Jund al Sham, Usbat al Ansar e Jihad islami. Al Bader e gli altri islamisti controllerebbero circa il 30 per cento di Ain al Hilwe, grazie anche rifornimenti di armi e soldi garantiti dai sunniti militanti di Sidone.

«Non ho tempo oggi per i giornalisti, posso solo dire che abbiamo la situazione sotto controllo e che la vita nel campo scorre normale», ci assicura, respingendo la nostra richiesta per una intervista, Munir al Maqdah, un noto comandante militare da anni con un piede dentro e uno fuori da Fatah. Le cose però non vanno proprio in quella direzione, come sanno gli oltre 80mila abitanti di Ain al Hilwe. Nel campo sventolano ovunque le bandiere delle principali organizzazioni palestinesi, da Fatah al Fplp, sui muri dominano i poster con i volti dei leader storici. Ma l’indebolimento dell’Olp, unito a quello dei Fratelli Musulmani (Hamas), è evidente e ha favorito l’ascesa di al Bader e delle altre formazioni jihadiste. In tempi più recenti ha avuto un impatto anche l’arrivo di tanti profughi palestinesi che vivevano nel campo di Yarmouk, a Damasco. «Tra non pochi giovani di Yarmouk, Jabhat al Nusra è popolare e il salafismo è più sentito rispetto agli abitanti di Ain el Hilwe. Ecco perchè tra i seguaci di Bilal al Bader ci sono palestinesi giunti dalla Siria», ci spiega Maher Abu Khias, un insegnante.

Il clima nel campo profughi, presidiato all’esterno delle forze armate libanesi, alimenta i pensieri più torbidi tra gli abitanti di Sidone. Molti di loro desiderano l’allontamento dei profughi, a cominciare da quelli venuti dalla Siria. L’Esercito ha risposto alla pressione crescente avviando la costruzione di un muro di cemento armato intorno al campo. Poi le proteste lo hanno costretto a sospendere i lavori. Solo temporaneamente e i palestinesi, incluso Munir al Maqdah, sanno che quella barriera si farà. A presidiarla, all’interno di Ain al Hilwe, è proprio la milizia unitaria dell’Olp. «Ecco, questo è il muro. Mi raccomando, fai qualche foto da lontano e te ne vai» mi ripete, mettendosi in posa, un giovane militare in uniforme da commando e armato di mitra.