«Il cadavere più ingombrante che giace sul pavet del mondo è la civiltà. Tutte le civiltà sono sotto tiro»: così Mohsin Amid, lo scrittore pakistano conosciuto per il suo Fondamentalista riluttante ha aperto il suo intervento al Lahore Literary Festival, che ha visto 75.00 visitatori in tre giorni (tra i molti sponsor anche l’Ambasciata d’Italia a Islamabad). Il numero non è uno scherzo, in una città blindata, che ha reagito così all’attacco suicida avvenuto nei giorni precedenti e ai molteplici altri che quasi quotidianamente feriscono il Pakistan.

L’altra verità è altrettanto drammatica: le ragioni e i torti di quei morti non si parlano, infatti il grande assente al festival è stato l’Occidente. Nonostante i numerosi ospiti stranieri e i pakistani della diaspora presenti all’evento, non si è parlato se non marginalmente, di Charlie Hebdo, dei morti di Parigi e Copenaghen, delle cellule dormienti e delle ragazze colte e studiose che lasciano l’Europa per correre in Siria, come delle schiave di Boko Haram, le decapitazioni spettacolari dell’Isis. Come potrebbe essere altrimenti? La stampa occidentale si occupa forse e quotidianamente di Pakistan se i morti non sono almeno cento, come avvenuto il 16 dicembre scorso a Peshawar? Dei complessi rapporti con Cina, Afghanistan, India e Stati Uniti? Pure questi mondi ci appartengono e ci interrogano.

Autrici e autori, giornalisti e intellettuali sono stati invece quasi tutti concordi nel constatare che le notizie e il racconto di queste realtà non può essere sufficiente a rappresentare quello che sta succedendo: Yasmine El Rashidi, reporter egiziana che ha vissuto i giorni della rivoluzioni da piazza El Tahir (suo il bel The Battle for Egypt: Dispatches from the Revolution) è convinta che i media, occidentali e non, forniscono una rappresentazione distorta dei fatti, persi come sono nella traduzione, nell’impossibilità molto spesso di essere presenti, nella narrativa distorta che in questo caso si fa del Pakistan. È una fiction quella che i media offrono; la vita quotidiana, quello che realmente pensano e vivono i civili, nelle grandi città come nelle aree rurali, emerge ben poco nell’Occidente ora ragionevolmente impaurito da qualcosa che non ha ancora un volto dai tratti definiti.

Ne è sicuro Joe Sacco, il cartoonist famoso per i suoi reportages da Gaza e dalla Bosnia, applauditissimo dal pubblico che ha fatto lunghe file per avere una copia autografata delle sue tavole. «Ho deciso di partire per Gaza perché le news non mi offrivano nessun contesto»: così si è preso la libertà di passare un anno in Palestina parlando con donne e uomini, con gli anziani che hanno visto il blitz del 1948, le alture del Golan; e ben tre anni al suo ritorno per concludere e tavole, cucendole, questa volta sì come un cronista, «come si deve fare, cucendo i pezzi» per restituire le storie alla storia. Quel racconto si è trasformato così non solo nella fiction, con lui che si autorizzare sempre nei suoi lavori: «that is my world», quello è il mio mondo.

Si mischiano dunque parole, immagini, fatti e memorie, alla ricerca della parole per dirli tutti questi mondi, che è stato anche il titolo di questa terza edizione del Festival: Find the word, trova la parola. E non c’è dubbio che i contributi più interessanti sono venuti dalle e dagli scrittori e giornalisti, pakistani e non, che sono nati in famiglie poliglotte, che vivono o hanno vissuto in paesi occidentali e non, che dalla complessità del loro passato riescono a cogliere lo spirito del tempo, riescono a vedere con spirito secolarizzato il loro essere musulmani e non. Vedono chi sono le nuove vittime della violenza qui: forze dell’ordine e loro cari, minoranze religiose, poveri cittadini.

«Quando qualcosa è nascosto nella storia della tua famiglia o del tuo paese si vive un trauma orribile»: è così che Roger Cohen, reporter del «New York Times» e scrittore di successo, parte da sé. Figlio di genitori inglesi di origine ebrea, emigrati in Sudafrica, Roger ha visto sua madre diventare così depressa da subire l’elettroshock, tentare il suicidio, rifiutare ostinatamente il rientro in Gran Bretagna e infine morire in vecchiaia e sofferenza. Cohen, che ha scritto reportage da Afghanistan, Pakistan, Kosovo e molto altro, ha avuto bisogno di raccontare quel dramma familiare per arrivare alle verità nascoste di Guantanamo e Abu Grahib e denunciare le ambivalenze della politica americana, ora che anche lui ne è cittadino. Ha avuto bisogno di scrivere un libro sulla donna che l’ha partorito (The girl from the Human Street) per capire se stesso e il suo presente.

Così come Eve Eisler, autrice del famoso Monologhi della vagina, anche lei acclamata dal pubblico, che si è offerta con generosità nel racconto della sua incredibile vita: figlia di un padre violento e di una madre brutalizzata, ha superato gli choc della sua infanzia passando per due cancri e poi spendendosi per i diritti delle donne nella Repubblica Democratica de Congo. Grazie a lei, alle attrici di Bollywood presenti, alle giornaliste e scrittrici pakistane, a Monique Wilson (attrice interprete dei «Monologhi» e a capo del movimento OneBillionRising in Sud Est asiatico), e alla storica inglese Rachel Holmes (La Venere ottentotta: la vita e la morte di Saartjie Baartman), il Festival di Lahore è stato uno splendido spettacolo di donne velate e non, di libere discussioni su sesso e famiglia, terrorismo e Stato, memorie e madri. Una bella beffa alla minaccia del terrore che vegliava fuori da quel bel giardino.