Il lavoro, che c’è e non c’è, le navi, che una volta portavano speranze e lavoro, appunto, e ora non si sa. Le immigrazioni. Chi ha detto che storia e bruciante attualità non possano stare assieme in un festival Jazz dipanato su quattro serate e decine di ore di lezione? A Genova, nel Porto Antico ridisegnato da Piano queste tre tematiche facevano a sfondo alle nuove composizioni ideate da Marco Tindiglia. Jazzista polistrumentista, direttore del Gezmataz Festival da 13 anni, e docente a quei seminari alla rassegna collegati che le stesse composizioni hanno usato come base di elaborazione, con l’ausilio anche di proiezioni storiche fornite dall’Autorità portuale.

Bella sinergia. Non è stato il solo caso in cui schermi e immagini a rotazione hanno fatto da contrappunto alla musica. È successo anche con il concerto in cui J. Peter Schwalm, tastierista di Francoforte ed esperto di elettronica cresciuto alla corte di Brian Eno ha presentato il suo magnifico e spesso inquietante progetto The Beauty Of Disaster. Le immagini, curate da Sophie Clements, erano quelle del disastro petrolifero nel Golfo del Messico, la musica, con una batteria dura e metronomica, un basso pulsante, e gli sciami di noise e accordi ieratici curati da Schwalm,uno strano punto d’equilibrio tra Ligeti, Sigur Ros e Godspeed You! Black Emperor. Era la serata RareNoise, in cui ogni anno sul palco del Gezmataz viene presentato un progetto curato dall’etichetta fondata a Londra da un italiano di valore.

Il jazz nel pieno solco della tradizione afroamericana s’è ascoltato nel possente ma meditato concerto offerto dal Steve Coleman con i suoi Five Elements. Coleman è decisamente una figura chiave e di snodo essenziale per il jazz che raccoglie i cocci preziosi della propria storia e la proietta nel futuro. Lui, con il suo contralto che ora saetta geometrie angolari imprendibili in assolo come faceva Charlie Parker, o ragiona su logiche numeriche come John Coltrane, o cerca (e trova) il gioco di contrappunto con lievi e voluti effetti di sfasatura con la tromba di Jonathan Finlayson come faceva Ornette Coleman è oggi una figura musicale gigantesca. Costruisce micidiali climax sull’accumulo di cellule motiviche iterate come fossero schegge di rhythm and blues, dirige il flusso della musica con la logica implacabile, nel riuscire a coniugare fisicità e astrazione.

Un po’ il contrario di quanto mostrato dal pur grande bassista,violoncellista e compositore svedese Lars Danielsson con il suo progetto Liberetto II: ariose melodie che cercano e trovano il «canto» puro, struggimenti languorosi che, comunque,di tanto in tanto non lesinano impennate jazz rock un po’ guascone. Anche questo è jazz, oggi, in pieno transito di frammenti postmoderni.