I due divi della giornata, Al Pacino e Catherine Deneuve sono al Lido con due film in concorso, non strabilianti, ma pacatamente attraenti. La struttura di Manglehorn di David Gordon Green non può che essere un po’ monocorde dato il pessimo carattere del suo protagonista, un fabbro amareggiato per la perdita di un suo irripetibile amore che non ha saputo conservare, a cui continua a scrivere da anni senza ricevere risposta. Quelle lettere che invia gli ritornano indietro puntualmente e questo non fa che accrescere il suo senso di solitudine.

Il figlio diventato uno squalo della finanza si dimostra anche più distaccato, preso solo dai suoi affari. Manglehorn (questo il nome del fabbro, con la sua bottega specializzata in chiavi e serrature) è Al Pacino in una delle sue interpretazioni misuratissime al millimetro per passare dall’attenzione nel lavoro, al disgusto, all’apprensione, alla nostalgia, al discreto interesse, alla rabbia fredda: una gioia per gli appassionati di recitazione.

I suoi antagonisti sono la ragazza della banca che dovrà subire un rovinoso appuntamento, il figlio quando si fa vivo, la nipotina in sintonia con le sue eccentricità, la sua fascinosa gatta Fannie, un suo ex giocatore di baseball di quando faceva l’allenatore (ed è interpretato da Harmony Korine, una figura eccentrica del cinema americano, lanciato proprio dal festival di Venezia alla Settimana della critica con il suo esordio geniale Gummo, così straripante allora come lo rivediamo oggi nel film). Tutta la vita passata di Manglehorn è compressa nel suo sguardo spesso minaccioso nei confronti delle banalità e nella sua parca gestualità.

Rifinisce le chiavi come se stesse caricando il revolver, studia il suo ambiente come se stesse mettendo a punto la strategia di gioco, ma è come se lo avessero squalificato, o fosse retrocesso o venduto la squadra. Un coach che non ha più fuoriclasse su cui contare, che ha perso il gusto del gioco. Eppure di lui raccontano che era l’uomo dei miracoli. Come ci ha abituato il cinema statunitense ci si aspetta che da buon sportivo riprenda in mano la sua vita con un colpo di scena.

Anche qui lo fa, ma il regista che è di Austin (Texas) lavora più come fa il cinema indipendente e si tiene lontano dagli schemi, lascia che liberi la mente senza fracasso, che si riavvicini poco a poco alla vita reale e non solo ai ricordi che lo soffocano. Come fosse una rilettura nei tempi non eroici che viviamo, di Ogni maledetta domenica, il Tony D’Amato che fu o addirittura di Le parole che non ti ho detto con le bottiglie lanciate nell’oceano da Kevin Costner. Qui siamo in un altro tipo di factory, la musica che piove a pioggia su tutto il film è degli Explosion in the Sky, a cui il giovane sceneggiatore Paul Logan curava le luci quando erano in tournée, un rilassato e libero modo di fare cinema ad Austin, Texas.

In un’altra provincia, la solita provincia francesce ricca di intrighi, è ambientato il film di Benoît Jacquot 3 coeurs (3 cuori) osservato dal vigile sguardo di Catherine Deneuve che non è solo la madre delle due sorelle protagoniste (Charlotte Gainsboug e Chiara Mastroianni) ma anche la musa ispiratrice del film, se pensiamo alle sorelline Delphine e Solange che danzavano e cantavano a Cherbourg sotto gli ombrelli di Jacques Démy. Anche in questo caso sono tempi ben diversi dal ’64 e addirittura ci si può permettere un protagonista ostico come un ispettore delle tasse, anche si trattasse di uno come Benoît Poelvoorde il grande attore comico belga che sa come mantenere l’equilibrio (è il suo secondo film alla Mostra).

Perde il treno di ritorno a Parigi e fuori dalla stazione incontra una ragazza speciale (Gainsbourg) ma all’appuntamento successivo non si trovano (altro riferimento cinematografico, ai melo degli anni ’40) e tempo dopo incontrerà senza saperlo la sorella (Mastroianni) con cui allaccia un rapporto che lo porta fino al matrimonio. Gainsbourg intanto è volata negli Usa con il suo fidanzato,non sa chi sia lo sposo, l’identità si svelerà troppo tardi e il trionfo dell’amore romatico farà soffrire tutti. In un film italiano il protagonista si sarebbe barcamenato piacevolmente tra le due (chi ricorda Venga a prendere il caffé da noi? dove Tognazzi apprezzava ora l’una ora l’altra delle sorelle?), ma qui si tratta senza dubbio di omaggiare cinematograficamente la sorella scomparsa, di far apparire e scomparire il ricordo di Françoise Dorleac.

Basta non cercare la logica, ma il telecomando, lo streaming. Altrimenti perché in tutto questo Benoit Jacquot metterebbe in scena anche il sindaco con i suoi problemi fiscali? Ovvio, per citare Potiche (La bella statuina) di Ozon che a sua volta citava Demy. Il cinema francese omaggia se stesso.