Con chi sta Jahmat-ul-Ahrar, il gruppo che ha rivendicato la strage di avvocati a Quetta dell’8 agosto? Con il Califfo Abu Bakr al-Baghdadi o con il medico egiziano Ayman al-Zawahiri, con lo Stato islamico o al-Qaeda? La domanda può sembrare secondaria, ma rimanda a un’importante partita in corso: quella per l’egemonia sul jihad contemporaneo.

Tutto comincia formalmente nel giugno 2013, quando i rapporti tra il futuro Califfo e l’allora casa-madre qaedista si rompono del tutto. Andavano male da tempo. Quattro decenni di esperienza alle spalle, al-Zawahiri guardava con sospetto al settarismo aggressivo di al-Baghdadi, erede della linea adottata in Iraq dal jihadista giordano Abu Musab al-Zarqawi, morto nel 2006.

E non gli piaceva la fretta con cui, nel 2013, il discepolo aveva deciso di irrompere nella partita siriana, cercando di intestarsi la guida del movimento che l’egiziano aveva creato con cura: il Fronte al-Nusra.

In questi giorni al-Nusra, il più importante gruppo jihadista nella partita siriana, ha condotto un’intelligente operazione di marketing: ha prima annunciato e poi ampiamente pubblicizzato il distacco dalla casa-madre, al-Qaeda. Ora si chiama Jabhat Fatah Al-Sham, per accreditarsi presso la comunità internazionale e nella galassia anti-Assad come fronte autonomo, non compromesso con i terroristi qaedisti.

Per qualcuno la dissociazione – simbolica e non formale, secondo i canoni jihadisti – sarebbe un segno di indebolimento del gruppo fondato da Osama bin Laden. L’ulteriore schiaffo ad al-Zawahiri, l’esperto tessitore di trame mandato in pensione dal giovane Califfo: le velleità inconcludenti del primo archiviate dai successi del secondo, che rivendica sempre maggiori affiliati e attentati, anche nel cuore dell’Europa. Ma le cose sono più complicate.

La mossa del fronte al-Nusra e del suo leader, l’emiro Abu Mohammad al-Julani, non solo è stata benedetta da al-Zawahiri, ma rientra nella sua strategia di lungo termine. Tenere un basso profilo, puntare a guadagnare consenso sui territori, nelle comunità, dove è possibile nascondere le affiliazioni con gruppi armati locali. Mediare, costruire legittimità radicandosi. Non scomunicando, come fa il Califfo.

Due strategie diverse, per arrivare allo stesso obiettivo. Senza il sostegno delle masse, senza la certezza della sua longevità, l’instaurazione di uno Stato islamico è contro-producente, pensa l’egiziano, che prima di combattere punta ad allargare le alleanze. Lo Stato islamico c’è già, qui e ora, e io lo rappresento, dice l’iracheno che usa la violenza per produrre consenso politico.

La strategia del Califfo, esclusivista e takfirista, gli fa guadagnare visibilità. Il pragmatismo consente all’egiziano di espandersi sottotraccia. Così, i territori amministrati dallo Stato islamico in Siria e Iraq sono sempre più sotto pressione militare. I gruppi legati ad al-Qaeda, sempre più radicati nelle lotte locali. Come il fronte al-Nusra.

In Siria al-Qaeda fa mostra di mettersi da parte. Altrove, fa un passo indietro. Lo Stato islamico, invece, insieme al proprio nome rivendica le affiliazioni. La più importante risale al marzo 2015 e riguarda il gruppo nigeriano Jamat Ahl al-Sunnah Lil Dawa Wal Jihad. Meglio noto come Boko Haram, diventato poi provincia dello Stato islamico in Africa occidentale.

Per anni il leader di Boko Haram, Abu Bakr Shekau, ha chiesto a Bin Laden l’affiliazione formale. Lo sceicco saudita l’ha sempre negata. Il Califfo ha poi concesso a Shekau una nuova divisa, un marchio globale. Non gli ha portato fortuna.

Il 2 agosto il magazine dello Stato islamico An Naba ha fatto sapere che il «governatore» della provincia è ora Abu Musab al-Barnawi. Shekau ha replicato il giorno dopo, denunciando i metodi troppo morbidi dell’uomo che gli avrebbe soffiato la leadership. La diatriba dimostra che il Califfo ha uno status autorevole agli occhi dei jihadisti africani, ma racconta anche le divisioni interne a Boko Haram. Da quando è affiliato all’Is, il gruppo ha perso coesione, territorio, capacità operativa. E la rete di sostegno prima offerta da al-Qaeda nel Maghreb islamico.

La branca regionale di al-Qaeda, al contrario, si espande, e oggi guida la partita jihadista in tutta l’area del Sahel. Dimostrando soprattutto in Mali di saper colpire obiettivi locali e forze internazionali. Lo stesso fanno nel corno d’Africa i somali di al-Shabaab, formalmente affiliati ad al-Qaeda solo nel 2012. Bin Laden non voleva. Meglio evitare pubblicità, pensava.

L’irruzione dell’Is ha messo in crisi anche i somali. All’inizio dell’anno uno dei leader è stato costretto a minacciare di «tagliare la gola a chiunque metta a repentaglio l’unità», cambiando casacca. Ma poi le sirene del Califfo hanno perso fascino. Oggi al-Shabaab, fedele ad al-Qaeda, prospera e minaccia Mogadiscio. Boko Haram, alleato dello Stato islamico, perde colpi.

E perdono colpi molte delle prime “province” annunciate dal Califfo nel novembre 2014, in Algeria, Egitto, Libia, Arabia saudita, e soprattutto Yemen, dove al-Qaeda nella penisola arabica ha governato a lungo la terza più importante città del paese. E oggi guadagna consensi.

In India e Bangladesh, la partita è più aperta. In Bangladesh lo Stato islamico ha reclutato giovani leve, più inclini alla novità del messaggio, al marchio premiato sul mercato jihadista. Ma in India, e in tutto il sud-est asiatico, l’egiziano è avvantaggiato, perché il baricentro di al-Qaeda da anni non poggia solo sul mondo arabo-musulmano. In Asia, il Califfo si affaccia per la prima volta. Al-Zawahiri tira le fila di rapporti decennali.

Nel settembre 2014 ha annunciato la creazione di al-Qaeda nel sub-continente indiano, la branca del gruppo per un’area che dall’Afghanistan passa per il Pakistan, l’India, il Bangladesh e arriva fino in Birmania. La rete è frutto di un lungo negoziato con diversi gruppi locali, dall’Afghanistan al Kashmir. Per guidarla, l’egiziano si è affidato al maulana Asim Umar, un veterano della guerriglia, già leader dei Talebani pachistani, che invoca il risveglio della comunità islamica e la battaglia contro l’oppressione del governo hindu.

Temi simili, ma toni più radicali, quelli dello Stato islamico. Molto meno forte e radicato sul terreno, in India il Califfo urla più forte. Recentemente è stato diffuso il primo video interamente dedicato al subcontinente indiano. Protagonisti alcuni militanti armati, che invocano vendetta per l’uccisione dei musulmani: «Ritorneremo, con una spada in mano, per tagliarvi la gola».

Agli infedeli indiani che «adorano la mucca, il sole e la luna», non restano che tre opzioni: «Accettare l’Islam, pagare la jiziya (tassa per gli infedeli, ndr) o essere sgozzati». O saltare in aria.

Così è successo l’8 agosto agli avvocati e giornalisti accorsi all’ospedale Civico di Quetta per protestare contro l’uccisione, avvenuta poco prima, del presidente dell’Associazione degli avvocati del Belucistan, la turbolenta provincia pachistana dove a maggio gli americani hanno incenerito con un drone mullah Mansur, leader di quei Talebani afghani che mantengono legami formali con al-Qaeda e combattono la provincia del Khorasan dell’Is, annunciata nel gennaio 2015 e ora sotto scacco, come dimostra la recente uccisione del leader Hafiz Saeed Khan.

L’8 agosto a Quetta sono morti in 70. La strage è stata subito rivendicata dal portavoce del Jamat-ul-Ahrar, un gruppo fuoriuscito e poi rientrato nell’ombrello dei Tehreek-e-Taliban Pakistan, i talebani pachistani, nati nel 2007, che coi cugini afghani spartiscono poco, oltre al nome. Poi è giunta la rivendicazione dello Stato islamico. I due comunicati sono in contrasto.

Nella confusione generata dalla campagna acquisti globale del Califfo qualcuno ha detto che il Jamat-ul-Ahrar è ormai nell’orbita dello Stato islamico. È vero il contrario. Sta con i Talebani pachistani. Con al-Qaeda.

 

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