Mentre i servizi segreti internazionali tentano di confermare o smentire la veridicità della rivendicazione dell’Isis della strage di venerdì a Sana’a, a rispondere ai rivali islamisti è al Qaeda. Venerdì notte, a poche ore dagli attacchi contro due moschee sciite della capitale, nei quali sono rimaste uccise 142 persone, miliziani qaedisti hanno preso d’assalto la città meridionale di Houta, nella provincia di Lahj: l’hanno temporaneamente occupata entrando con la forza in edifici governativi e basi dell’intelligence e hanno ucciso almeno 20 soldati governativi prima di essere respinti indietro dall’esercito agli ordini del presidente Hadi.

Houta, a soli 30 km dalla capitale provvisoria di Aden, dove il presidente è fuggito in esilio forzato, potrebbe essere il modello dello scontro tra Isis e al Qaeda in Yemen, se si proverà che la struttura del califfato nel paese è abbastanza radicata da organizzare azioni di tale magnitudo. Attacchi ai civili da una parte, attacchi ai simboli del potere costituito dall’altra. Un binomio che non potrà che trascinare nel caos uno Stato già in guerra civile. Nelle stesse ore del raid qaedista a Houtha, a nord – roccaforte dei ribelli Houthi – gli sciiti si scontravano con i miliziani di alcune tribù locali sunnite al confine tra le province di Marib e al-Baydha.

Una guerra di tutti contro tutti? Gli interessi in gioco in Yemen sono tanti e diversi. Nel calderone del caos yemenita hanno infilato le mani gruppi estremisti, tribù sunnite, gruppi sciiti, poteri regionali e globali. Per uscire dalla crisi, ieri in un messaggio televisivo il presidente Hadi ha fatto appello agli Houthi perché abbandonino la capitale Sana’a, accusandoli di voler importare l’ideologia degli Ayatollah nel paese: «Dobbiamo innalzare di nuovo la bandiera dello Yemen sul monte Marran [a nord, ndr], invece di quella iraniana», ha detto ordinando ai ribelli sciiti di consegnare le armi, lasciare le sedi dei ministeri e abbandonare Sana’a.

Hadi ha poi chiesto al movimento Houthi di prendere parte al negoziato proposto la scorsa settimana dal Consiglio di Cooperazione del Golfo. Ma dietro il Consiglio sta l’Arabia Saudita che il tavolo del negoziato intende aprirlo a casa propria, a Riyadh. Una possibilità che i ribelli sciiti non intendono accettare, nell’obiettivo di sganciarsi dalle ingerenze politiche e economiche saudite. Per farlo puntano all’Iran, il solo potere regionale in grado per di coprire il gap lasciato dal taglio dei finanziamenti sauditi, indispensabili alla sopravvivenza dello Yemen. L’agenzia stampa degli Houthi, Saba, ha annunciato la scorsa settimana che Teheran fornirà a Sana’a greggio per un anno e costruirà un impianto elettrico da 165 megawatt.

All’appello televisivo del presidente Hadi, il movimento sciita ha risposto con una chiamata alle armi: in un comunicato pubblicato ieri gli Houthi invitano le forze militari governative, agli ordini di Hadi, a mobilitarsi contro l’esecutivo di stanza ad Aden, promettendo una prossima offensiva di vasta scala contro tutte le istituzioni fedeli al presidente.

Ma lo Yemen non è cruciale solo per Teheran e Riyadh. Lo è anche per gli Stati uniti che prima del collasso del paese lo dipingevano come modello riuscito della guerra a distanza, la guerra dei droni, lanciata per smantellare il più forte braccio locale di al Qaeda. Ieri la Casa Bianca ha ordinato l’evacuazione di circa 100 soldati delle unità speciali dispiegati nella base di Al-Annad, dopo aver chiuso la propria ambasciata a Sana’a il mese scorso. Ma a gettare l’ennesima ombra sull’operato statunitense in Medio Oriente è il Washington Post che pochi giorni fa ha riportato della battaglia in corso al Congresso in merito alla scomparsa di armi Usa in Yemen: il Pentagono non trova più armamenti dal valore complessivo di 500 milioni di dollari, donate allo Yemen e ora evaporate. Un milione e 250mila munizioni, 300 occhiali per la visione notturna, 200 pistole 9 millimetri, 200 fucili automatici, 160 veicoli blindati Humvees, quattro elicotteri, due aerei Cessna, un aereo da trasporto Cn235.

Un bel quantitativo di aiuti militari che il Pentagono non è riuscito a monitorare, tanto da essere costretto ad ammettere di non poter più evitare che cadano nelle mani sbagliate, ovvero di soggetti non alleati di Washington. Potrebbero averle sequestrate gli Houthi, che da settembre hanno assunto il controllo di molte basi militari a nord del paese. O al Qaeda che ne ha occupate altrettante a sud.