«L’attacco di Capodanno a Istanbul potrebbe essere una mossa interna turca per ripulirsi l’immagine: “Non siamo più legati all’Isis”. Ma lo sono». Ali al-Ahmed, noto analista saudita, fondatore e direttore dell’Institute of Gulf Affairs e editorialista per numerosi media tra cui Cnn, Ap e Washington Post, ne è convinto: dietro la strage al Reina c’è la mano di chi cerca di salvarsi dalla sconfitta siriana.

Lo Stato Islamico ha compiuto l’attentato pochi giorni dopo l’accordo tra Russia e Turchia sulla Siria: è la risposta di chi si sente tradito da Ankara?

Penso che l’attacco sia parte del cambiamento nella strategia turca ma non nel senso di una reazione da parte dell’Isis. Non siamo frettolosi nel pensare che sia stata la risposta islamista all’accordo turco-russo. Va considerata la possibilità che si tratti di una mossa interna per ripulirsi l’immagine di fronte ai russi che spesso in passato hanno accusato la Turchia di sostenere Daesh permettendo il passaggio di miliziani e di armi in Siria. I turchi non solo lo sapevano ma per anni lo hanno facilitato. L’attacco può essere parte dello show con cui il governo turco tenta di presentarsi alla Russia come forza anti-Isis. Ma così non è, non è considerabile una forza di opposizione agli islamisti.

Intende dire che l’attentato è stato organizzato o comunque facilitato dallo stesso governo?

Possiamo definirlo una false flag operation: l’obiettivo è dare l’idea che lo Stato sia sotto attacco, sia la vittima. La Turchia è ancora in debito con l’Isis e questa strategia ne è la prova.

L’Isis ha però rivendicato l’attacco: c’è dunque secondo lei una connessione diretta tra i due soggetti?

Assolutamente. Non prendiamoci in giro: un gruppo terrorista in grado di spostarsi da un paese all’altro (e non parliamo di 2 o 3 persone, ma di migliaia di miliziani che attraversano i confini verso la Siria) è chiaramente facilitato dal governo di quel paese. I foreign fighters non sono invisibili. Io ho provato ad entrare in Turchia un anno e mezzo fa e mi hanno respinto. La Turchia ha ottimi servizi segreti che hanno permesso ai miliziani di muoversi in libertà, reclutare uomini e raccogliere armi. La Turchia è parte del fenomeno Stato Islamico. Sono convinto che lo stesso al-Baghdadi sia lì in questo momento. Non in Siria o in Iraq, ma in Turchia. Non ne ho le prove, ma l’esperienza me lo fa pensare. Come Osama bin Laden era in Pakistan.

Le bombe turche su al-Bab, nel nord della Siria, sono dunque solo un mezzo anti-kurdo?

È così, i turchi non colpiscono davvero l’Isis come dicono ogni giorno di fare. Hanno ancora bisogno dell’Isis: la Turchia compra petrolio dai territori occupati da Daesh, ne sfrutta la forza per destabilizzare la Siria. È una politica vecchia: l’uso del terrorismo e di gruppi armati è sempre stato una caratteristica dei governi in tutto il mondo per portare avanti determinati obiettivi. L’esempio migliore è il sostegno Usa ai miliziani islamisti contro l’Urss in Afghanistan o più recentemente in Libia.

Eppure Ankara ha cambiato la sua strategia in Siria: ha riconosciuto la sconfitta?

La Turchia è il grande perdente della guerra siriana insieme al Golfo. Non hanno rimosso Assad e non potranno farlo in futuro. Aleppo ha segnato la svolta: il fatto che Damasco abbia ripreso la città ha segnato la ritirata turca. Aleppo è stata per anni teatro della vittoria turca e saudita nel processo di destabilizzazione del paese, ma alla fine è tornata al nemico. La Turchia può solo rimettere insieme i cocci.

Continuerà dunque a sostenere milizie islamiste e sunnite o si adeguerà al volere russo?

Continuerà a sostenerle ma il supporto cambierà: non più armi ma protezione politica, difesa a livello nazionale e internazionale perché possano restare in Siria in determinate zone e partecipare al dialogo. Ma non ci sono prospettive di un aumento di finanziamenti, soprattutto dopo l’entrata in carica di Trump. La Turchia ha due opzioni: la Russia o gli Stati Uniti. I russi sono molto chiari, non vogliono gruppi islamisti in Siria che generino una situazione nello stile Cecenia. E Trump rigetta la strategia di Obama, usare queste milizie per indebolire i regimi che non piaccono. Per cui Ankara deve abbandonare in ogni caso, almeno ufficialmente, queste alleanze.

Il pericolo però è significativo: gruppi come l’ex al-Nusra si sono radicati nelle comunità, le amministrano e si mostrano come alternativa.

Al-Nusra è stato capace di ottenere il supporto di alcune comunità perché intorno c’era solo devastazione. Ma queste milizie non sono reazioni organiche e naturali: sono frutto del volere degli Stati. Non c’è un gruppo in Medio Oriente – che siano le milizie sciite o i gruppi estremisti sunniti – che non godano della partnership di uno o più Stati-nazione. Simili attori non-statali non potrebbero sopravvivere senza il sostegno finanziario e militare degli Stati: hanno bisogno di denaro, stipendi, risorse naturali, infrastrutture, libertà di movimento da un confine all’altro. Non bastano i finanziamenti privati, serve un budget statale. Quello in corso è un gioco tra nazioni.