Acquistato per dieci milioni di dollari da Amazon (che l’anno scorso qui a Park City si era assicurata per una cifra altrettanto alta anche i diritti di Manchester By the Sea), The Big Sick, di Michael Showalter, è un buon indicatore dei temi, e dell’estetica, che più attraversano la selezione del Sundance di quest’anno – una commedia romantica contro i pregiudizi (di razza e cultura), tratta dalla biografia del comico pachistano Kumail Nanjiani (il Dinesh della sitcom HBO Silicon Valley), che firma la sceneggiatura, insieme a sua moglie, Emily Gordon, ed è anche il co-protagonista. Presentato nella sezione Premiere del festival, The Big Sick è prodotto da Judd Apatow e dell’universo apatowiano riflette molto bene il dna generazionale, la tensione umanista e autobiografica, la centralità dei rapporti di coppia e dell’universo domestico, e l’amore profondo per il backstage della commedia stand up (anche se non nella dimensione nevrotica e dark esplorata da Apatow nel suo lavoro tutt’oggi più interessante, Funny People).

È un film, come molti visti quest’anno, un po’ in tutte le sezioni, che mette l’accento sull’attore e sulla sceneggiatura, piuttosto che sulla ricerca formale. Con echi autoironici che ricordano il tono e la voluta sgangheratezza della bella sitcom di Louis C. K. Louie, The Big Sick, introduce Kumail come un aspirante comico chicagoano, che di giorno fa l’autista per Uber e di sera cerca di farsi notare in un piccolo comedy club, dove la massima aspirazione è farsi invitare dal solito talent scout annoiato a un festival della commedia di Montreal.

A casa, la tradizionalissima famiglia di Kumail pensa che lui stia studiando per diventare avvocato e considera le velleità artistiche del ragazzo un semplice passatempo, da interrompersi una volta conseguita la laurea e dopo il matrimonio, a cui la mamma di Kumail lavora instancabilmente, invitando a cena, una dopo l’altra, una fitta galleria di bellissime ragazze pachistane. Lui tergiversa ma non dice mai di no, accumulando decine e decine di foto delle possibili mogli, in una scatola di sigari. Si innamorerà invece di una ragazza magra, buffa e bianchissima, Emily (Zoe Kazan), con cui guarda La notte dei morti viventi e Vincent Price in L’abominevole Dr. Phibes, che però ha paura di presentare ai suoi.

Quando Emily scopre la scatola di sigari lo lascia. Ma poi finisce in coma indotto, causa un’infezione, e lui si ritrova al suo capezzale, insieme ai genitori di lei (Holly Hunter e Ray Romano). Imbarazzo, dolore, viltà, e ancora bugie, la doppia vita di Kumail non può che arrivare a un breaking point. Assorbita la lezione di Apatow, Nanjihani e Showalter non hanno paura di confrontarsi con i peggiori istinti umani, convinti però che, alla fine, sono sempre quelli migliori a vincere.

«Credo che l’arte abbatta l’alterità», dice Dee Reese quarantenne afroamericana del Tennessee il cui Mudbound (sempre sezione Premiere) è come The Big Sick un film sull’incontro di due famiglie di cultura e razze diverse. Rispetto alla rom-com di Showalter, il secondo lungometraggio della regista scoperta a Sundance nel 2009, con Pariah, ha un tono completamente opposto – solenne, quasi epico, ambientato com’è nel Mississippi rurale del secondo dopoguerra. Tratto dal noto, semi-faulkneriano, romanzo di Hillary Jordan (2008), Mudbound scava nel passato diviso dell’esperienza americana contrapponendo e intersecando la storie di due famiglie, i bianchi McAllan e i Jackson, afroamericani, che affittano una porzione della loro terra. Si tratta di una terra ingrata, sterile («Quando penso alla fattoria, penso al fango. Sognavo in marrone» dice Laura McAllan (Carey Mulligan), la voce narrante all’inizio del film), da cui bianchi e neri dipendono, accumunati dalla povertà e da una dura lotta per la sopravvivenza.

Tenui alleanze (tra donne, tra soldati reduci dal fronte, tra capi famiglia) aspirano aldilà degli stretti limiti imposti dalla differenza di razza, ma poco possono contro l’ingiustizia clamorosa sui cui si fondano i rapporti e che risucchia il drammatico finale del film. Più vicino al formato dell’adattamento letterario da piccolo schermo, che alla dimensione intima, più sperimentale, di Pariah, Mudbound ha già fatto parlare di Oscar ma è ancora in attesa, ad oggi, di una distribuzione.