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Non c’è felicità se la verità è assente. Attorno a questo binomio Alain Badiou tesse, nel volume Metafisica della felicità reale (DeriveApprodi, pp. 95, euro 12), ultimo, in ordine di tempo, nodo della sua fitta rete programmatica sulla prassi filosofia contemporanea che ha preso il via, nel 1989, con la prima edizione del Manifesto per la filosofia (Feltrinelli), per poi essere ulteriormente definita nella seconda versione edita da Cronopio. Anni di sconfitta del marxismo; anni di assenza di verità e della conseguente felicità.

Nell’intervallo tra i due volumi Alain Badiou ha macinato molte pagine per affrontare la sconfitta del marxismo novecentesco, stabilendo un sodalizio con Slavoj Zizek attorno alla provocatoria difesa della «variante» maoista e terzointernazionalista del pensiero comunista, definendo la sconfitta del movimento comunista come una parentesi, perché l’idea comunista è come l’araba fenice: rinasce sempre dalla sue ceneri. La sua idea comunista sembra tuttavia più una «teologia» che una critica dell’economia politica.

In questo Metafisica della felicità reale il filosofo francese prende un po’ le distanze da questa linea di difesa per stabilire appunto un legame tra verità e felicità. Tanto il primo termine che la seconda condizione sono l’esito di un percorso analitico della realtà faticoso e niente affatto scontato nel suo approdo. Si giunge alla felicità dopo avere esperito la realtà nella sua «pienezza». In Badiou non c’è quindi nessuna concessione all’idea che la felicità sia una condizione transitoria, legata a particolari contingenze. Un tema, questo, già affrontato nel suo pamphlet sull’amore (Elogio dell’amore, Neri Pozza), dove la felicità era da mettere in relazione con la costruzione di una relazione tra diversi, ma comunque eguali nel vissuto amoroso. In questo libro, invece, la bussola che orienta il cammino è la verità, cioè la capacità di interpretare la realtà sgomberando il campo dalle opinioni, le acerrime nemiche della verità e di conseguenza della felicità.

Nel libro di Badiou sono forti gli echi di Platone, ma anche di Spinoza. Ed è da leggere come un contraltare, un vaccino verso la diffusa infelicità, quest’ultima da interpretare come la condizione di chi è prigioniero dell’opinione pubblica dominante e delle passioni tristi che la contraddistinguono. Nella manifestazione della felicità non c’è nessuna dimensione sociale, ne è espressione di una condizione di subalternità o di oppressione, bensì di chi è consapevole della realtà, delle chance di liberazione dall’oppressione che si possono individuare. Questo non significa che una volta avviati sul sentiero della verità – e dunque della felicità – le condizioni individuali e collettive cambiano, bensì che è stato solo tracciato il cammino da intraprendere. Il dolore e la sofferenza rimangono sempre individuali e non possono essere quantificati e non spariscono una volta rimossi la dimensione sociale dell’infelicità. La verità, e la conseguente felicità, è cioè un percorso non privi di ostacoli. È un work in progress che può avere battute d’arresto e regressioni, ma abbandonare la ricerca della verità impedisce l’esperienza ricca e piena della felicità.