Per chi ha percorso, anche solo sfiorandole, le discese ardite e le risalite di Lucio Battisti, ha certamente incrociato, in qualche lista di musicisti accreditati, il nome di Alberto Radius, un chitarrista che fin dai primi anni ’60 bazzicava nei club romani e milanesi in una serie di complessi (come venivano definite le band all’epoca) dalle alterne fortune o al massimo prototipi di futuri super-gruppi come I Quelli (che qualche anno dopo diventeranno la PFM). Quel nome, così carico di reminiscenze latine, ha attraversato lustri di musica leggera sotto le vesti più disparate: proprietario dello storico studio milanese che ha fatto nascere dischi come L’era del cinghiale bianco di Franco Battiato, session man per Alice, Giuni Russo, Marcella Bella, compositore per Loredana Bertè e Mina.

Ma è nel mezzo di queste tante incarnazioni che Alberto Radius ha lasciato un vero e proprio marchio indelebile, a partire dalla fondazione della Formula 3, power trio che per qualche anno ha portato una piccola rivoluzione nel sound pulito di quegli anni, fin dal loro primo singolo, Questo folle sentimento, brano scritto da Battisti-Mogol che con un paio di accordi ha squarciato il velo di quel pettinato 1969. Un minuto circa di intro strumentale dove, sul tappetto Moog di Gabriele Lorenzi, la chitarra di Radius è urlo di battaglia, voce selvaggia, macchina da guerra del suono; sei corde cannibalizzate che sembrano coniugare la bestialità di Hendrix alla sperimentazione di Robert Fripp, un lampo che però verrà presto sacrificato dalla radio in nome del più rassicurante proseguo della canzone.

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Radius, con la sua Gibson Les Paul e i ricci neri che tanto lo fanno assomigliare a Jimmy Page, violenta ogni forma-canzone con furia iconoclasta ma dopo tre dischi, stanco di dover limitare la propria espressività a favore di canzoni un po’ schematiche ma sopratutto di esser considerato come membro di una band satellite di Battisti-Mogol, presenta al pubblico, nel 1972, il suo primo lavoro solista, Radius, dal sapore genuino e sanguigno. Gli ingredienti dei sei brani sono improvvisazione e jam-session anche perché chiama a se alcuni dei migliori solisti pop del momento, tra cui Demetrio Stratos, Gianni Dall’Aglio, Vince Tempera e in quattro giorni, nel torrido luglio del ’72, riesce a imprimere nel vinile una quantità di materiale impressionante e, con il pretesto del raduno scanzonato fra amici, realizza un album dal fascino imperfetto, quasi esistenziale con la manifesta intenzione “politica” di proporre un lavoro diverso dal solito disco “precisino” dal primo all’ultimo minuto.

Ma oltre alle dita, Radius comincia a far scivolare splendidamente anche la sua voce: prima in Mi chiamo Antonio Tal dei Tali e lavoro ai mercati generali (presente nel secondo disco della Formula 3), a seguire in Prima e dopo la scatola (testo di Battisti) e in alcuni brani della sua seconda band, Il Volo, fondata nel 1974, per volere di Mogol, insieme a musicisti come Vince Tempera, Mario Lavezzi, Gianni Dall’Aglio, Bob Callero e Gabriele Lorenzi. Un esperimento (due soli dischi) che vale la pena ricordare vista l’assoluta unicità del gruppo all’interno dei recinti del progressive italiano, merito di uno stile particolarmente originale, mai banale e di uno straordinario equilibrio strumentale, basato su un risultato di insieme e mai su tecnicismi singoli come in Svegliandomi con te alle 6 del mattino, ma anche grazie ai bei testi di Mogol che impreziosiscono le splendide La mia rivoluzione (Il tuo abbraccio caldo e ardente/sembra un giro d’orizzonte) e Sonno (Sonno anche il giorno che divento principale/Sonno quando parlo d’amore/Sonno quando qualcuno nasce e muore).

Ma per Radius l’esigenza di una “singola” espressione non conosce requie e così, nel 1975, incontra negli studi della CGD il paroliere Oscar Avogadro, autore all’epoca di testi per Sandro Giacobbe e Loretta Goggi ma è con il chitarrista romano che Avogadro esploderà in tutta la potenza lirica (successivamente scriverà canzoni magnifiche come Vincent Price di Faust’O, La goccia di Loredana Bertè e A me piace vivere alla grande di Franco Fanigliulo). Leggenda (confermata) vuole che Radius e Avogadro si sedessero su un vecchio tavolo di legno con disegnate delle orchidee e cominciassero a sfogare le proprie idee e frustrazioni verso il sistema, non solo musicale, che li circondava. In quegli anni infatti l’universo discografico italiano era come spaccato in due, politicizzati, sistemi solari, tralasciando i buchi neri e conformisti dei primi posti in classifica.

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Da un lato il cantautore impegnato subito targato “a sinistra” e tutto quello che restava fuori, bollato come un’imprecisata militanza di destra. Nel caos musicale, ma soprattutto politico, Radius e Avogadro, con l’aiuto di Daniele Pace, fanno le prove generali con Che cosa sei, disco ancora incerto fra tentazioni battistiane (soprattutto nell’utilizzo di frasi tronche) e rarefazioni prog ma è con il successivo, Carta straccia, che i due regalano alla musica italiana un gioiello non solo musicale ma un grido compatto e soprattutto fieramente non allineato contro la civiltà dei consumi e le trappole dell’ideologia dell’epoca. Bandiera del disco la famosa Nel Ghetto che, nel corso delle settimane, diventa a sorpresa, come accadde del resto ad Ancora tu di Battisti, una hit da prime discoteche che sfruttano qualsiasi 4/4 con cassa in battere per riempire la pista ma nel marasma danzereccio è difficile che i Tony Manero italici ante-litteram cogliessero la portata di un pezzo così lontano dai meccanismi ideologici, capace di rimare citando Marx (Io da perdere ho soltanto le catene).

Carta straccia è un disco di rabbia elettrica, di voluta e sfuggente ambiguità politica (o apolitica) dove nemmeno l’amore non può che soccombere al frastuono del mondo, come nella straziante Quando il tempo sarà un prato (Io ti amerò quando nell’aria si spegneranno le bandiere della memoria/quando il tempo sarà un prato che nessuno ha calpestato/quando l’ordine sovrano non avrà il fucile in mano). Nel 1979, America Good-Bye è il successivo tassello del malessere, scisso fra minaccia spietata al nazione-simbolo del capitalismo e fascino oramai malinconico per una lontana chimera di libertà. A partire dalla title-track che si domanda, memore dei sogni della controcultura, perché (La bandiera ha stelle a volontà ma come mai non brillano?), brani come Coccodrilli Bianchi (E Mickey Mouse s’impiccherà) o Poliziotto (Hey negro dove vai? Se cerchi guai, guarda qui, il manganello c’è/raddrizzerà schiene storte, pervertiti, portoricani, froci e banditi) sembrano quasi respirare furore e conati punk come mai si erano sentiti in precedenza nelle nostre radio. Gli anni successivi di Radius scivoleranno via nel segno delle produzioni, di reunion, delle ospitate di lusso e di almeno un altro gioiello solista mentre la fine dell’anno vedrà la luce del suo ultimo lavoro: 1000 lacrime, disco che, come racconta Radius, “è una sorta di constatazione in musica di quello che è successo, anche di tragico, negli ultimi anni, a partire da una canzone dedicata al primo giornalista americano decapitato dalla Jihad. C’è anche una canzone, Europa dove vai?, che in qualche modo si lega, anche per assonanza, alla mia America Good-Bye” E così ancora una volta, anche senza Oscar Avogadro (scomparso qualche anni fa), la chitarra e la voce di Alberto Radius osserverà, questa volta, la frantumazione del sogno europeo con la sicurezza e la lucidità di chi ha avuto il coraggio di perdere le catene.

NOTA A MARGINE

Oltre ai dischi già citati, vogliamo segnalare un gioiello che ha custodito un piccolo segreto per più di trent’anni. Stiamo parlando di Gente di Dublino, disco che Radius pubblica nel 1982 sempre in coppia con Pace e Avogadro e che viene lanciato, con buon successo, da Lombardia, brano umbratile e fatato. Sono i mesi nei quali negli studi Radius, Battiato sta registrando La voce del padrone e, personalmente, un piccolo dubbio mi ha sempre attraversata. Ascoltando brani come Centrocampo (Sugli effetti dell’agopuntura sono quasi sicuro di me/Collegarmi alla mitologia dovrei) o la joyciana Gente di Dublino (Le vacanze di settembre nella casa di Crimea/Forse tu pensi ancora che io ho letto troppo Marco Polo) non è difficile scorgere il geniale stile pastiche di letteratura, geografia, sarcasmo, nonsense e filosofia che proprio in quegli anni Battiato forgiava dopo anni di sperimentazione. Ebbene, nella lunghissima conversazione che ho avuto con Radius  alla mia velata domanda, ha risposto “Beh certo, quelle le ha scritte Franco!” Mistero svelato anche se, a causa della mia emozione, non ricordo il perché non fosse accreditato Battiato come autore di quei testi. Poco male, sarà una scusa per chiamarlo di nuovo.