Ad Aleksandr Solzenicyn (1918-2008) non fu necessario che nel 1970 venisse assegnato il premio Nobel perché la sua fama attraversasse i ferrei confini della patria sua. C’erano già stati i circa quindici anni di lager, scontati tra gli anni quaranta e cinquanta, e poi almeno tre opere dirompenti come Una giornata di Ivan Denisovic (1962), Divisione Cancro (1967) e Il primo cerchio (1969). Si sarebbero di lì a poco aggiunti, insieme all’espulsione e all’esilio nel boschivo e nevoso Vermont, i grandi cicli narrativi, le minuziose cartografie del terrore, i saggi politici, le pagine autobiografiche, i pamphlet. Senza mai trovar pace, senza permettersi un solo momento di riposo e di calma, lo sguardo ostinato sulla Storia, sulle ferite mortali inferte alla rivoluzione, sul sangue fratricida che aveva allagato il decennio dei Trenta in Unione Sovietica e su quello, invece sacro e necessario, versato nella lunga guerra al nazifascismo, sul breve e illusorio «disgelo» e sulla grigia, ottusa e non perciò meno crudele stagione brezneviana, Solzenicyn divenne per chiunque l’incarnazione dell’uomo che non vacilla, fermo ed eretto sull’asse dell’agire morale, e di colui il quale non è disposto a cedere di un palmo o a patteggiare sul benché mimino compromesso.

L’«uomo-leggenda», l’«uomo-epos», lo chiamava Lidija Cukovskaja. Nella sua lucida determinazione, nella sua illimitata acribia documentaristica, egli metteva in scena la micidiale cesura che separerebbe, secondo una tradizione reazionaria e pauperistica, verità e politica o, più semplicemente, responsabilità e gestione o amministrazione del bene pubblico. Tuttavia con un apparente e sorprendente paradosso: nella militanza, così sorda e chiusa alle procedure della dialettica e ai richiami e alle tentazioni mondane, Solzenicyn finiva per mostrare (interiorizzando così un contrappasso mimetico di proporzioni colossali) una natura e uno sguardo non dissimili da quelli dei grandi rivoluzionari del secolo, vale a dire dei suoi da sempre e per sempre demoniaci nemici giurati. Continuò a sentirsi stretto in una sorta di clandestinità anche quando il suo volto, le sue battaglie e la sua letteratura conobbero fama universale. Quasi che appunto il suo modello pratico fosse Lenin a Zurigo. La vecchia talpa continuò a scavare seppure in direzione opposta e contraria.

Ma l’ostinato animaletto – come, ancora una volta, dimostrano i finora inediti in Italia Racconti di guerra (traduzione e cura di Sergio Rapetti, Jaca Book, pp. 246, euro 14, 00) – non pose fine alla propria attività nemmeno più tardi, negli anni novanta. I tre racconti (Non importa, Sulle fratture e Zeljabuga e i suoi abitanti) e il romanzo breve «in ventiquattr’ore» intitolato Adlig Schwenkitten, tutti datati tra il 1993 e il 1998, chiariscono oltre ogni possibile dubbio quale sia stato il vero bersaglio di Solzenicyn, prima e dopo, e fino a che punto la pietrificante Medusa avesse avuto da sempre il volto dei Tempi Nuovi. Il suo arcaico e quasi mistico panslavismo – capace, nella tastiera del grande scrittore, di variare tasto e timbro, dalla denuncia all’elegia, dal sarcasmo o dall’ironia alla tenerezza, dal dettato scabro a quello arioso e dalla sintassi avvolgente – era il portato di un rifiuto netto, irriducibile, regressivo del mondo moderno. L’Uomo Nuovo, fosse egli il frutto della rivoluzione d’Ottobre o del capitalismo liberale, era e sarebbe stato sempre e comunque un Mostro. Anche Solzenicyn, in sostanza, non ha fatto altro che ripetere: se non si può andare avanti, occorre tornare indietro. Anche lui avrebbe dato tutte le centrali termonucleari della sua nazione in cambio di una lucciola. In questi racconti a specchio, ognuno dei quali insomma strutturato al pari di un dittico oscillante tra passato di guerra e guerre presenti, non a caso l’occhio dello scrittore si sofferma a lungo sulle ferite che il libero mercato sta infliggendo al tessuto sociale, ambientale, antropologico della Russia.

«Le idee non sono soldi», e allora «ci si poteva solo stupire di come certi funzionari del partito, prima inaccessibili, inamovibili sentinelle di pietra, a guardia della ‘proprietà del popolo’ avevano in men che non si dica voltato gabbana, trasformandosi in vivaci uomini d’affari, sempre di corsa, sempre attenti a cogliere ogni occasione di profitto, ad arraffare con entusiasmo, a mettersi in tasca di tutto. E poi quelle borse, quelle borse di commercio che spuntavano dappertutto come funghi?». Questo è lo stato delle cose in Sulle fratture, dove ai funzionari di partito si vanno sostituendo i malavitosi travestiti da uomini d’affari, i gangster circondati dalle guardie del corpo, i mafiosi dinamitardi, e dove l’avidità, la sete di denaro regnano sul destino degli uomini fino ad annichilirne il destino, l’unicità, la sacralità. Una devastazione che pare non volere risparmiare il paesaggio stesso. Nel secondo capitolo di Zeljabuga e i suoi abitanti la passione devota e compassionevole si rivolge ai luoghi che oltre mezzo secolo prima lo avevano visto in armi con la divisa di capitano. Un viaggio a ritroso nel tempo che gli consente di misurare le modificazioni subite dal terreno. «Dov’è», si domanda, «quella ripidezza, la decisa pendenza del declivio, le tenaci erbe cui aggrapparsi? S’è insabbiato, cancellato, calvo e senza più netti contorni – non il minaccioso contrafforte di un tempo. Eppure è lui, lui così caro ai nostri cuori».

Franco Cordelli definisce Solzenicyn uno scrittore della fraternità. Certo, tutto lo lascia credere – e qui, ad esempio, le pagine toccanti in cui racconta l’incontro con una vecchia contadina che aveva conosciuto ragazza, in tempo di guerra: non subito avviene l’agnizione, la chiama «mamma» (alla maniera russa), e quando capisce che la donna ha cinque anni meno di lui arrossisce, se ne vergogna ed è lei a questo punto a consolarlo, a toglierlo d’imbarazzo. Eppure e insieme, tornando a riflettere sulla causa sua, mi riesce difficile pensare che la leva della sua opera non sia stata innanzitutto la barricata solitaria da cui non gli fu possibile scendere mai. Egli mi pare sia stato, come e più di chiunque altro nel Novecento, uno scrittore del conflitto, anzi di una guerra infinita.

In un’intervista del 1973 mise in conto per sé finanche l’estremo sacrifico della vita nel nome di quell’«inflessibilità dello spirito umano» che gli impediva di «accettare l’idea che il corso funesto della storia sia irrimediabile». Fu sconfitto, come sappiamo, ed è piuttosto la comune sconfitta a rendercelo fraterno.