Quando Fedor Tjutcev scriveva nel 1866 «La Russia non si intende con il senno,/ in essa si può soltanto credere» non immaginava certo che con questi versi avrebbe fornito a distanza di anni una sorta di giustificazione a quella parte dell’opinione pubblica occidentale incline a sottolineare a ogni piè sospinto l’apparente inspiegabilità di quanto accade all’ombra del Cremlino. Il mito di questa presunta incomprensibilità – trasformatosi ben presto in un trito cliché – sarebbe poi passato in eredità, quasi per osmosi, a quella compagine plurinazionale – l’Unione Sovietica – destinata a subentrare alla Russia e a sovrapporsi nell’immaginario collettivo a essa per ben settant’anni. Tanto più prezioso appare dunque il tentativo «illuminista» di Svetlana Aleksievic di razionalizzare e interpretare i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni al di là di pregiudizi e stereotipi, dando voce ai testimoni spesso inascoltati della Storia, ossia la cosiddetta gente comune.
Il suo ultimo libro appena uscito da Bompiani, Tempo di seconda manoLa vita in Russia dopo il crollo del comunismo(traduzione di Nadia Cicognini e Sergio Rapetti, pp. 777, euro 24,00) sembra voler capovolgere diametralmente l’assunto di Tjutcev: credere nella Russia è quantomeno azzardato (e il crollo dell’Urss lo prova), mentre al contrario capire che cosa si celi dietro le missioni più o meno salvifiche di cui le sue classi dirigenti periodicamente si auto-investono appare assolutamente vitale tanto per gli stessi russi, quanto per i loro vicini. A maggior ragione oggi, considerando che la mancata elaborazione del periodo staliniano ha aperto la strada al recupero in chiave populista di quei «buoni tempi sovietici andati» forse in quanto tali mai esistiti, ma ora certamente indispensabili alla «democrazia controllata» di Vladimir Putin e alla sua retorica.
Fedele al metodo già sperimentato nelle sue opere precedenti, Preghiera per Cernobyl, Ragazzi di zinco e Incantati dalla morte (tutti edite in Italia da e/o), Aleksievic si affida di nuovo alla forma del collage di voci narranti in prima persona, riducendo al minimo la propria presenza nel testo e lasciando quasi esclusivamente spazio ai monologhi delle persone da lei ascoltate o origliate, più che intervistate. Come nelle installazioni di Il’ja Kabakov, dove fragili pezzettini di carta fissano le frasi estemporanee pronunciate dagli inquilini degli appartamenti comunitari, anche qui udiamo le voci di personaggi assenti, invisibili, di cui talora non conosciamo nemmeno il nome o la professione, ma che sembrano spinti da un impulso irresistibile ad articolare e consegnare ad altri le proprie storie private. Tema pressoché esclusivo delle loro riflessioni o dei loro sfoghi è il trauma collettivo rappresentato dal crollo improvviso dell’universo socialista in cui erano nati e cresciuti. Benché l’autrice parta dal presupposto che solo chi ha conosciuto l’Urss possa capire quell’essere affatto particolare che è l’homo sovieticus, anche all’interno di questa categoria antropologica esperienze e percezioni risultano talmente variegate (e, a volte, contrastanti) che si ha l’impressione di avere a che fare con persone provenienti da mondi assai lontani l’uno dall’altro.
C’è chi dà la colpa di tutto a Michail Gorbacëv, reo di aver dato inizio al processo di dissoluzione dell’Unione con il proprio programma di riforme; altri al contrario ricordano la perestrojka come un momento di autentica liberazione; altri ancora – i più anziani – rimpiangono il paese della propria infanzia, l’atmosfera di esaltazione collettiva che aveva accompagnato la fine della seconda guerra mondiale e la vittoria sulla Germania nazista. Dalla valutazione attribuita alla glasnost’ deriva, com’è ovvio, anche il giudizio sul putsch dell’agosto 1991, momento cruciale cui la Aleksievic dedica ampio spazio, recuperando la vicenda in parte dimenticata di Sergej Achromeev, maresciallo dell’Urss che si impiccò nel suo studio, allorché la sconfitta della vecchia guardia golpista divenne evidente. Uno dei temi ricorrenti di Tempo di seconda mano è infatti il tragico destino di coloro che non sono stati in grado di sopravvivere al crollo degli ideali in cui avevano creduto. Se il militare di alto rango Achromeev è l’esempio più eclatante, l’autrice non dimentica neppure le migliaia di anonimi cittadini che vissero la fine dell’Urss come una sorta di fallimento personale, pur avendo spesso alle spalle – paradossalmente – storie terribili di lutti e persecuzioni insensate. A tale proposito, la vicenda forse più emblematica è quella di Anna M., figlia di una presunta «nemica del popolo», allevata in orfanotrofio mentre la madre era ai lavori forzati in Kazachstan, e incapace fino in fondo di trovare una lingua in comune con la donna che pure le aveva dato la vita: «C’è stato un momento in cui volevo fuggire da mia madre per tornare all’istituto… Non leggeva mai i giornali, non andava alle manifestazioni, non ascoltava la radio. Non le piacevano le canzoni che a me facevano balzare il cuore in petto… L’ho accarezzata e baciata solo da morta».
Recuperando «briciola dopo briciola, la storia del socialismo domestico», come lei stessa afferma nell’introduzione, Aleksievic dimostra – attraverso la voce dei suoi personaggi – come effettivamente la propaganda sovietica fosse riuscita a creare, se non quel fantomatico «uomo nuovo» di cui favoleggiavano fin dall’Ottocento i socialisti utopisti, quantomeno individui assai poco disposti a confrontarsi con chiunque mettesse in discussione – anche soltanto involontariamente, con le proprie disgrazie private – i modelli di comportamento considerati «esemplari». Ancora più abissale è la distanza che separa l’homo sovieticus (una categoria transnazionale con cui la giornalista, nata nel 1948 da padre bielorusso e madre ucraina, si identifica appieno) dalle nuove generazioni post-sovietiche. Se infatti nella prima parte del libro, dedicata agli anni novanta, la dolorosa rielaborazione dell’esperienza socialista riveste un ruolo centrale, nella seconda, centrata sul decennio successivo e significativamente intitolata Il fascino del vuoto, l’accento si sposta sul culto edonistico del benessere odierno, o sull’ancor più attuale revival autoritario alimentato dalla nostalgia per la perduta dimensione imperiale dello stato sovranazionale sovietico. Sebbene Aleksievic sostenga che il suo metodo di lavoro – fondato, più che sulla sintesi, su un’accumulazione quasi ipertrofica delle testimonianze – non le consenta di tenere il passo con i mutamenti in corso, Tempo di seconda mano resta essenziale per comprendere le contraddizioni attuali della società russa, divisa tra pulsioni consumistiche individuali e il rimpianto più che evidente per quella mobilitazione collettiva permanente che era il fulcro dell’ideologia comunista. Nel contempo, la terapia psicanalitica sui generis cui Aleksievic sottopone se stessa e i suoi interlocutori risulta assai originale anche sotto il profilo letterario. Insistendo sul fatto di non essere una storica, bensì un’«umanista» affascinata dai destini privati intrappolati nella Storia, l’autrice si mantiene infatti scrupolosamente fedele alla voce individuale dei suoi narratori, di cui restituisce con grande sensibilità linguistica intonazioni, vezzi e idiosincrasie. Il risultato è una galleria introspettiva di ritratti a tutto tondo che alterna abilmente analisi e commozione.