A due settimane dal lancio della controffensiva su Aleppo, violenti scontri con le opposizioni che hanno ucciso almeno 400 civili, ieri l’esercito governativo ha rallentato le operazioni: i raid aerei saranno ridotti «dopo il successo delle forze armate nel tagliare le vie di rifornimento ai terroristi nei distretti orientali».

Le truppe di Damasco e le milizie sciite alleate sono avanzate, hanno ripreso i quartieri nord orientali e si sono portate fino alla città vecchia. Ma la capacità militare delle opposizioni non è stata ancora piegata: arroccati ad est, i gruppi islamisti – che in estate hanno chiamato a raccolta migliaia di miliziani dal resto della Siria – non cedono, nascosti tra i civili, e colpiscono con costanza i quartieri ovest, sotto il governo. E la popolazione seppellisce i morti da entrambe le parti.

L’annunciata riduzione dei bombardamenti arriva mentre il ministro degli Esteri russo Lavrov e il segretario di Stato Usa Kerry discutevano di nuovo al telefono della questione. Ma con Mosca in palese posizione di forza, a stupire di più sono state ieri le dichiarazioni dell’inviato Onu de Mistura: ieri si è detto pronto a scortare fuori da Aleppo i miliziani di Jabhat Fatah al-Sham, l’ex al-Nusra uscita a fini di mero maquillage da al Qaeda.

«Se deciderete di andarvene in dignità verso Idlib o dovunque vogliate andare, sono personalmente pronto ad accompagnarvi fisicamente», ha detto rivolto a quelli che calcola essere 800 miliziani ad Aleppo est, un numero sottostimato visto che in totale la milizia conta 7-10mila uomini, divisi tra il nord, la roccaforte sud di Quneitra e sobborghi intorno Damasco.

Emergono due elementi: la consapevolezza del pericolo insito dietro l’ex al-Nusra, occultamente coccolato da molti attori anti-Assad, seppur de Mistura definisca l’offerta il mezzo per privare la Russia della giustificazione all’assalto; e allo stesso tempo l’approccio ufficialmente naive che accompagna la sua diplomazia.

I qaedisti non lasceranno Aleppo perché la guerra divisiva è la loro strategia: Jabhat Fatah al-Sham vuole prendersi un territorio da trasformare in emirato sunnita e la capitale del nord ne è parte. E se anche la lasciasse, i suoi uomini continuano a ammassarsi e a essere ammassati nella provincia di Idlib che controllano quasi completamente.

La frammentazione, prospettata alla luce del sole o dietro le quinte dai componenti del fronte anti-Damasco, è uno scopo ben diverso da quello che muove le altre milizie para-statali sul campo: in cima alla piramide dei gruppi sciiti iraniani, iracheni, libanesi e afghani c’è la longa manus di Teheran che da anni finanzia e addestra uomini in tutta l’area per limitare l’influenza di quella che definisce la minaccia wahabita saudita.

Sul campo siriano tra i più attivi, come ben spiegato ieri da un articolo del Wall Street Journal, sono le milizie sciite irachene, 4mila uomini dei 10mila stranieri a sostegno di Assad. Sono i più preparati: da due anni combattono lo Stato Islamico in Iraq e liberato Tikrit, Ramadi e Fallujah. E molti di loro sono quelli che negli anni dell’invasione statunitense hanno resistito armi in pugno alle truppe Usa. Che poi Washington abbia messo sul più alto scranno di Baghdad una leadership sciita, al posto del sunnita Saddam, non significa che siano sorti legami con le milizie che come primo riferimento politico e militare hanno l’Iran.

Non a caso che tali contraddizioni – il sostegno Usa al governo iracheno, ma non alle sue braccia armate né al suo sponsor regionale – esplodono con vigore. Lo si è visto negli ultimi giorni con lo scontro diplomatico tra Turchia e Iraq che si sono convocati gli ambasciatori a vicenda minacciando la rottura delle relazioni. Inevitabile, vista la strategia turca: da quasi un anno Ankara ha truppe nella base peshmerga di Bashiqa e da 14 mesi bombarda il Pkk nelle montagne di Qandil, entrambe chiare violazioni della sovranità irachena. Per non parlare degli affari sotto banco stretti con il Kurdistan iracheno per avere greggio a prezzi abbordabili.

Washington non ha mai proferito parola a difesa di Baghdad, lasciando ad Ankara parte del lavoro sporco per la frammentazione amministrativa dell’Iraq.