Giovedì notte le fiamme hanno avvolto la casa dei Dawabsheh in pochi attimi. Saad e Riham hanno cercato di salvare i loro bimbi, Ahmad di 4 anni e Ali di 18 mesi. Hanno fatto di tutto ma il fuoco e il fumo sono stati letali per il piccolo Ali. Saad ha provato invano a tirarlo fuori da quell’inferno. Niente da fare. L’autopsia ha dato un esito terribile. Il bimbo è bruciato vivo, come bruciò vivo poco più di un anno fa a Gerusalemme Mohammed Abu Khdeir, ucciso per vendetta da estremisti israeliani. Si è consumata così la tragedia dei Dawabsheh nel villaggio di Kafr Douma, nei pressi di Nablus.

Ali ha pagato con la vita, e il resto della sua famiglia con ustioni deturpanti, colpe oscure. Hanno pagato per soddisfare il desiderio di rappresaglia di coloni israeliani fanatici, che si sentono la “spada della redenzione”, decisi a far pagare a una famiglia palestinese indifesa la sentenza della Corte Suprema israeliana che qualche giorno fa ha disposto la demolizione di un paio di edifici costruiti senza permesso nella colonia ebraica di Bet El.

Quando ieri mattina, alle prime luci dell’alba, è emersa tutta la gravità dell’accaduto, lo stesso Esercito israeliano non ha avuto dubbi sulla paternità dell’incendio doloso e ha dato pieno credito al racconto di alcuni testimoni palestinesi che hanno visto quattro coloni scagliare bottiglie molotov contro le due abitazioni prima di allontanarsi a tutta velocità verso l’insediamento di Maale Efraim. D’altronde la “firma” degli attentatori sulle pareti delle case prese di mira non lasciava dubbi: “Vendetta” e “Viva il Messia”.

E’ il gruppo del “Price Tag”, del “Prezzo da pagare”, che raccoglie crescenti consensi nelle colonie nazionaliste religiose e nella destra estrema. Sono anni che colpisce e quella di ieri è la sua azione più grave e sanguinosa. Eppure questi fanatici godono di una impunità di fatto: qualche giorno di carcere, al massimo qualche mese e sono liberi.

«Fino ad ora sembra che abbiamo affrontato il fenomeno del terrorismo ebraico troppo debolmente. Forse non abbiamo ammesso con abbastanza decisione che siamo di fronte ad un gruppo ideologico che è pericoloso e determinato a distruggere i ponti che abbiamo costruito con fatica. Sono fortemente convinto che affrontiamo un pericolo serio e dobbiamo attaccarlo alla radice», ha commentato il presidente israeliano Reuven Rivlin, affermando ciò che non pochi, anche questo giornale, ripetono da anni. Il fanatismo che trova terreno fertile nelle colonie israeliane sparse nei Territori palestinesi occupati è un pericolo molto serio.

Eppure continua ad essere sottovalutato, ridimensionato, soprattutto dai media occidentali che tendono ad accreditare la tesi di azioni di gruppi marginali. Si continua a resistere all’idea di definirli “fascisti”.

Esitazioni che invece non hanno alcuni studiosi israeliani dell’estrema destra, consapevoli di ciò che hanno di fronte. Il premier Netanyahu ieri mattina ha condannato l’accaduto e, come il capo dello stato Rivlin, ha parlato di “terrorismo” e ha fatto visita al piccolo Ahmad Dawabsheh ricoverato in ospedale a Tel Aviv. Ha anche ordinato indagini rapide per arrivare ai responsabili dell’incendio e non ha mancato di telefonare al presidente dell’Anp Abu Mazen per esortare una lotta comune contro «ogni forma di terrorismo, da qualunque parte arrivi».

Il primo ministro ha “dimenticato” un particolare non insignificante. Il suo governo è stretto alleato dei coloni. Lo stesso primo ministro in campagna elettorale, qualche mese fa, chiese i voti ai “settler” promettendo una rapida espansione di tutti gli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

Questo in carica è un governo che include ministri che non fanno mistero di condividere l’ideologia dei coloni più fanatici e che si proclamano alleati degli esecutori della “volontà divina” di redimere la biblica terra d’Israele, Eretz Israel. Naftali Bennett e Uri Ariel, tanto per citarne due. Il primo qualche giorno fa era a Bet El – un serbatoio di voti del suo partito, Casa ebraica – a protestare contro le demolizioni di due edifici illegali sentenziate dalla Corte Suprema.

Il secondo domenica scorsa era nella città vecchia di Gerusalemme a dar sostegno alle dozzine di attivisti della ricostruzione immediata del Tempio ebraico – incredibilmente definiti “escursionisti” in un servizio diffuso qualche giorno fa dalla principale agenzia di stampa italiana -, al posto della Moschea della Roccia che si trova in quel luogo da 1.300 anni. In questo clima di collusione palese o segreta tra governo ed estremisti, inevitabilmente qualcuno finisce per pensare che la violenza contro i palestinesi, gli arabi, sia permessa o, almeno, tollerata.

Stati Uniti e Unione europea hanno condannato l’accaduto e chiesto indagini serie e rapide. Abu Mazen e i vertici dell’Anp hanno annunciato il ricorso alla Corte penale internazionale.

bimbo
Ma in queste ore conta più di tutto ciò che accade sul terreno. La rabbia e lo sdegno dei palestinesi sono enormi, l’escalation è dietro l’angolo. Ieri sera la situazione appariva esplosiva dopo la lunga calma irreale seguita all’incendio a Kfar Douma.

Scontri violenti, con alcuni palestinesi feriti, sono avvenuti a Qalandiya, Issawiya e diverse località della zona di Nablus. Colpi sono stati sparati contro un’auto di coloni israeliani in Cisgiordania ma non hanno causato danni. Il movimento islamico Hamas ha diffuso un comunicato in cui proclama che tutti i soldati e i coloni israeliani sono «bersagli legittimi della resistenza».

Il Jihad Islami da parte sua ha avvertito che «Il terrorismo dei coloni e dell’esercito israeliano saranno fronteggiati dalla volontà palestinese che non accetta di arrendersi». Il Fronte popolare per la Liberazione della Palestina ha esortato il popolo palestinese ad «aumentare la resistenza» contro Israele e ha chiesto ad Abu Mazen di proclamare lo stato d’emergenza.