Michelangelo aveva iniziato la cappella della famiglia Medici nella chiesa di San Lorenzo a Firenze nel 1520 lasciandola però incompiuta quando fuggì a Roma nel 1534, abbandonando per sempre la città gigliata. Sarebbe stata inaugurata solo nel 1544, una volta che Niccolò Tribolo installò le sculture lasciate a terra dal Divino artista. Giorgio Vasari, nelle sue Vite, descrive la Sagrestia Nuova come il luogo in cui Michelangelo avrebbe messo in campo una novità tale che gli artisti gli erano in «infinito e perpetuo obligo», perché egli aveva saputo rifondare in un sol colpo una intera tradizione, lasciando da parte l’esempio di Vitruvio e dando vita a tutto un sistema architettonico nuovo, fatto di cornici, capitelli, basi, porte, tabernacoli e sepolture.

L’eccezionalità di quell’ambiente la si ricava anche dalla lettura dell’ultimo volume che Alina Payne, direttrice di Villa I Tatti-The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies, ha dedicato a L’architecture parmi les arts Materialité, transferts et travail artistique dans l’Italie de la Renaissance (Hazan-Louvre éditions, pp. 256, 60 ill., euro 25,00), pubblicato in concomitanza delle lezioni che Payne tiene al Museé du Louvre. Nel volume la cappella medicea diventa infatti un vero e proprio punto focale sul quale, spesso, convergono e si annodano i fili che l’autrice dipana attraverso i cinque capitoli che compongono il libro. Ponendo al centro del suo discorso l’architettura e i rapporti che essa intrattiene con le altre arti, Payne indaga le zone di contatto, scambio e reciproca influenza che si generano nel discorso artistico rinascimentale. Così, ad esempio, proprio la cappella medicea è un utile esempio per indagare come si rifonda il rapporto tra architettura e scultura.

Le figure come le lesene

Ma c’è di più. In essa i confini fra le arti sembrano svanire, ed è possibile interrogarsi sul procedere dell’artista nei confronti tanto dei materiali quanto di alcuni temi-chiave, come il problema del rapporto tra figura umana e architettura, o ancora la relazione tra ornamento e architettura, o tra quest’ultima e il disegno. Quella su cui Payne punta il faro della sua indagine è una dimensione artigianale, quasi fabbrile, dell’architettura del Rinascimento, recuperando la quale, però, si può sperare di cogliere un terreno trascurato del discorso sulle arti che si sviluppò tra quindicesimo e sedicesimo secolo.

Perché, e questo è un dato che Payne sottolinea, non esistevano (o erano assai rari) gli artisti «monografici», cioè quelli che si dedicavano a una cosa sola. Molto più usuale era una situazione di ibridazione, di mescolamento, in cui un artista era tanto pittore quanto architetto o scenografo. Un raggio davvero ampio quello delle considerazioni che Payne svolge nelle sue pagine. Esse ci invitano a inserirci in quelle zone di congiunzione tra le arti che, come l’autrice specifica, diventano molto spesso momenti di «scavalcamento», in cui idee e materiali migrano da un medium a un altro, da una scala di grandezza a un’altra.

Ancora, il caso di Michelangelo. Nella progettazione ed esecuzione del mausoleo mediceo l’artista sorveglia ogni momento della creazione, ogni particolare è portato allo stesso grado di finitura e di politezza, così che è possibile considerare l’intera cappella come un’unica, continua, opera di scultura. Le figure scolpite e adagiate sui sarcofagi sovvertono il rapporto con l’architettura: divengono delle decorazioni architettoniche al pari delle lesene e dei timpani. Quando, anni dopo, l’artista si trovò a fronteggiare la dimensione mastodontica della basilica di San Pietro, gli fu impossibile governare questi aspetti, abdicando a quella migrazione tra le arti che caratterizzava l’opera fiorentina.

Seguendo le linee della storiografia, in primis certo quella coeva ai fenomeni da lei analizzati, e quindi Alberti, Vasari e Palladio in particolare, ma senza trascurare gli esiti che quei dibattiti hanno portato nella storiografia otto-novecentesca, nel momento in cui la storia dell’arte diventava una disciplina accademica (soprattutto Jacob Burckhardt, Gottfried Semper, e Heinrich Wölfflin), Payne circoscrive alcuni «luoghi» in cui è possibile individuare questi fenomeni. In particolare la decorazione ornamentale guadagna uno specialissimo ruolo come termometro per indagare il grado delle migrazioni tra le arti e l’architettura, e in alcuni casi diviene il luogo per individuare lo stile personale dell’architetto. A partire, ancora una volta, dalle Vite vasariane, è possibile dare una risposta al quesito del perché, nel dibattito cinquecentesco sulla Paragone delle Arti (1547), l’architettura fosse rimasta a latere, entrando obliquamente nell’agone in cui i sostenitori della pittura e quelli della scultura si fronteggiavano su due opposti versanti. Seguendo la longue durée di questi temi, Payne fa emergere tutte le implicazioni di uno slittamento di prospettiva come quello da lei messo in atto, che tenta in ultima istanza di superare proprio quella separazione tra critica d’arte e critica architettonica che, in nuce, ebbe la sua origine proprio dal dibattito cinquecentesco sul Paragone. Così, ad esempio, è possibile per l’autrice recuperare all’attenzione degli studi quella che lei definisce «l’architettura vivente», e cioè il ruolo, lo statuto e gli sviluppi della figura umana inserita nel contesto architettonico, in particolare delle facciate.

Sull’esempio di Baxandall

Attraverso i capitoli i temi si inseguono e si accavallano, così che spesso si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un prisma che filtri lo sguardo su un medesimo oggetto. In tal senso le considerazioni sul problema della decorazione a sgraffito sulle facciate di alcuni palazzi rinascimentali paiono costituire il controcanto rispetto al problema della facciata scolpita, vero tema-cardine dell’architettura rinascimentale. La particolarità dello sgraffito, che usa strumenti dello scultore, che incidono i materiali, li grattano, per ottenere effetti che sono propri della pittura, lo apparenta a quei generi, come il mosaico, che oscillano tra diversi ambiti, che hanno statuti ibridi. Uno sguardo che sprona a interrogarsi anche sul significato dei materiali utilizzati, e che getta le basi per approfondire ulteriormente problemi come quelli posti dall’estetica del colore. Nel volume Payne concentra le sue osservazioni su questi temi soprattutto attorno a Venezia e sul senso delle costruzioni alle quali nella città lagunare diedero vita il fiorentino Jacopo Sansovino e il padovano Andrea Palladio. Il volume costituisce la sistematizzazione di riflessioni su questi problemi che Payne conduce ormai da tempo, in dialogo con quell’indirizzo degli studi (soprattutto di ambito anglo-americano) che concentra l’attenzione sulla materialità e la fattura degli oggetti artistici del Rinascimento. Un campo di indagine, questo, relativamente recente, una delle cui prime aperture è stata individuata nel prodigioso volume di Michael Baxandall sugli Scultori in legno del Rinascimento tedesco (1980, edito in Italia da Einaudi nel 1989).

Raccogliendo la sfida lanciata da questi indirizzi di ricerca, Payne l’ha rilanciata proiettandola sull’architettura, su quell’arte cioè che a un primo sguardo pare lontana da quello che si immagina essere l’usuale processo di creazione artistica, che senza soluzione di continuità porta dall’ideazione all’opera conclusa. L’architettura necessita di processi diversi, ma non per questo situati al di fuori o al di là di un discorso sui suoi materiali e sulle sue relazioni e intersezioni con le altre arti. Eludendo i binari di una narrazione storica in certa misura già determinata, Payne ci invita dunque a ri-guadagnare la «vicinanza genetica» tra le arti, ristabilendo, anche per l’architettura, l’appartenenza a pieno titolo a questo sistema.