Bambinetto, arrivato a Milano in affido alla sorellastra Irene dopo la morte della madre, Giovanni Segantini è consumato dalla nostalgia degli spazi aperti in cui è cresciuto e dove ha scorrazzato libero. Di giorno, sale sul tavolo per tentare di riconquistare una porzione di cielo, almeno con lo sguardo.
Tutta la vita dell’artista – nato ad Arco di Trentino nel 1858 e morto a soli 41, nel 1899, in una baita di montagna sullo Schalberg tradito da una peritonite – potrebbe racchiudersi in un solo grande desiderio, perseguito con un’ossessione costante e sempre più meticolosa: la ricerca del proprio, privatissimo paradiso perduto attraverso una drammaturgia della luce. E proprio quell’agire dei colori, anche autonomamente, lo condurrà sulla strada del divisionismo e del simbolismo.

OGGI E DOMANI sarà nelle sale italiane la storia intima e artistica di questo gigante del XIX secolo grazie al docu-film Segantini, ritorno alla natura – a due anni dalla mostra milanese di Palazzo Reale che gli ha tributato l’omaggio. Diretto dal regista Francesco Fei (prodotto da Apnea Filme Diaviva, distribuito da Nexo Digital in collaborazione con Sky Arte HD e MYMovies.it), ha vinto il premio del pubblico al Biografilm festival di Bologna: racconta la vita – e le opere – del pittore che ha il volto e il corpo di Filippo Timi, mentre le scene in esterni riconducono lo spettatore sulle tracce del reale paesaggio che fece da cornice a celebri quadri come Mezzogiorno sulle Alpi o Ritorno dal bosco.

CON L’AIUTO di Gioconda Segantini (nipote), la specialista storica dell’arte Annie-Paule Quinsac, Franco Marrocco (direttore di Brera) e Romano Turruni (storico di Arco) viene a delinearsi il ritratto di un outsider. Un’esistenza da vagabondo la sua, fin da bambino e poi molto solitaria da adulto – se si esclude la famiglia, l’amata Bice, i figli e la leggendaria nutrice Baba – spesa tra cime innevate e prati di alta quota.

Timi ha il compito di rappresentare più che le sue pennellate la voce interiore, dare visibilità ai pensieri, ai demoni e alla scrittura di diari e lettere di un uomo che, pur con in un italiano zoppicante, infarcito di errori di ortografia, seppe teorizzare al meglio la sua «estetica». Interpreta una vita aspra, giocata a stretto contatto con le forze della natura, dentro la quale precipitano temi universali – la salvezza, la morte, la maternità. I «sovrumani silenzi» di leopardiana memoria tornano ripetutamente nelle sequenze che alternano i luoghi dell’anima fino alla stazione fatale dove si interrompe il percorso di Segantini e s’infrange anche il suo ultimo sogno: la creazione di un grandioso Panorama dell’Engadina che naufragò di fronte a difficoltà economiche. Doveva essere un’opera di duecentoventi metri per venti di altezza. Un vero kolossal.

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