Stava parlando ad una mostra fotografica al Centro di Arti Moderne di Ankara quando è stato centrato alla schiena da una pallottola: l’ambasciatore russo in Turchia, Andrey Karlov, è morto ieri sera per le gravi ferite riportate in un attacco armato. Dopo l’assalto, l’aggressore – che avrebbe urlato «Allah è grande» e «Vendetta per Aleppo» – è stato ucciso dalle forze di sicurezza per poi essere identificato come Mevlüt Mert Altıntaş, cadetto all’accademia di polizia. Poco dopo colpi di arma da fuoco riecheggiavano vicino all’ambasciata Usa.

Il presidente Putin si è riunito d’emergenza con il ministro degli Esteri Lavrov e i servizi segreti, mentre l’ambasciata parlava di «atto terroristico» compiuto da islamisti radicali. La stessa affiliazione dei gruppi che combatte in Siria e che hanno più di un punto di contatto con la Turchia e la stessa di chi in questi giorni manifesta nelle città turche: molte bandiere nere accompagnano le marce di protesta per l’intervento russo in Siria.

Così si presentano i due nemici-amici all’incontro di oggi a Mosca, con cui si apre un nuovo negoziato sulla crisi siriana. Diverse le ipotesi sull’omicidio di Karlov: il gruppo islamista contrario al coinvolgimento russo in Siria; un lupo solitario; soggetti interni al governo interessati a indebolire il presidente Erdogan. Di certo la sua morte getta un’ombra sui rapporti traballanti tra i due paesi, indebolendo la Turchia. Già uscita sconfitta dalla guerra siriana, Ankara deve ora salvare il salvabile per cui – si vocifera – abbandonerebbe le mire su Aleppo in cambio di mano libera nel nord della Siria, nella kurda Rojava.

Dopo il puntuale riavvicinamento alla Russia, la scorsa estate, Erdogan ora prova a realizzare almeno parte degli obiettivi prefissati, impedire l’unità dei kurdi, attori sacrificati e sacrificabili per Mosca e per Washington. Non a caso ieri il governo turco diceva di aver identificato il responsabile dell’attacco di sabato a Kayseri: un kurdo, E. G, proveniente da Kobane.

Spiegazione che calza a pennello con la narrativa turca, ma non così verosimile visto il controllo serrato alla frontiera dove chiunque tenti di passare finisce nel mirino delle pallottole dell’esercito. Proprio al confine, aggiunge Ankara, sarà aperto un campo per gli evacuati di Aleppo. Non specifica però chi accoglierà: probabilmente i soli miliziani foraggiati per anni.

Ieri l’evacuazione da Aleppo est è cominciata davvero. Bloccate per ben tre volte da violazioni della tregua, dalla mezzanotte 5mila persone sono arrivate nei quartieri occidentali: famiglie siriane circondavano i camioncini di aiuti, senza affollarsi né spingere. Dai pick-up volontari in casacca rossa distribuivano pane arabo, acqua e vestiti per riscaldarsi dopo ore di attesa.

E il trasferimento continua: restano 5mila miliziani e 40mila civili, molti in strada in attesa dell’evacuazione. Le loro condizioni sono drammatiche: le temperature toccano i 5 gradi sotto lo zero e di cibo e acqua a est non se ne trovano quasi più. I pochi beni alimentari a disposizione, raccontano i residenti, venivano venduti alla borsa nera a prezzi esorbitanti e spesso confiscati dai gruppi armati: 13 dollari per un pacco di zucchero, 20 per un kg di farina.

La tregua sembra reggere nonostante gli attacchi di domenica nella provincia di Idlib: gruppi riconducibili a Jabhat Fatah al-Sham, l’ex al-Nusra, hanno preso d’assalto il convoglio diretto a Fua e Kefraya per evacuare i civili feriti. Uno degli autisti è stato ucciso, 20 bus distrutti dal fuoco mentre i miliziani armati gridavano oscenità contro la comunità sciita accusata di blasfemia.

Solo ieri la situazione si è sbloccata (fonti russe dicono a seguito di un nuovo intervento della Turchia, la cui influenza sugli islamisti è figlia di un prolungato e strutturato sostegno) e i primi 500 civili si sono mossi in direzione Aleppo nelle identiche condizioni degli aleppini, malnutriti e malati: i due villaggi subiscono un durissimo assedio interno da parte della galassia islamista guidata dall’ex al-Nusra. Ne restano altri 2mila in attesa di evacuazione insieme a 1.500 civili delle città di Madaya e Zabadani, al confine con il Libano, anch’esse controllate dai gruppi armati anti-Assad e assediati all’esterno dal governo e da Hezbollah.

A monitorare le evacuazioni sarà l’Onu: ieri il Consiglio di Sicurezza ha votato a favore di una bozza di risoluzione presentata da Parigi su cui in mattinata Mosca aveva dato il beneplacito dopo una minaccia di veto. Saranno immediatamente inviati 100 funzionari in Siria per verificare trasferimenti e consegna degli aiuti, evitare «atrocità di massa», salvaguardare i team medici e garantire ai civili di trasferirsi in sicurezza nella destinazione preferita. Una previsione che mira ad evitare il timore maggiore dei siriani, lo sradicamento dalla propria città.