All’Area Sismica ci si confronta col contemporaneo. Concetto mica così semplice come sembra. Non è cronologico, intanto. Trovi il tempo tuo, pulsante, vivo, persino aderente all’istante, in pensieri ed esperienze, artistiche, magari, musicali, magari, di cinquant’anni fa, o cento. Non vuol dire stare col presente così com’è, casomai vuol dire di più essere critici o divergenti rispetto al presente. Ma dentro l’oggi, giorno per giorno. Insomma, la materia è cruciale e appassionante. Come aperitivo una conversazione tra musicologi filosofi e pubblico e poi tre serate di concerti. Musiche per pianoforte di autori contemporanei di provenienza «dotta». Italiani di nascita o di adozione.

È un’eccezione, questa, per Area Sismica, che di solito esplora la contemporaneità nelle musiche elettroacustiche, elettroniche, improvvisate, di stampo jazzistico e non. Un’eccezione che si rinnova quest’anno per la quarta volta.

I pianisti Ciro Longobardi, Matteo Ramon Arevalos e Fabrizio Ottaviucci cercano il contemporaneo anche in musiche che potrebbero essere definite classiche. O almeno acquisite da un repertorio come quello dei secoli ventesimo e ventunesimo che è sempre instabile, sempre soggetto a revisioni e ribaltamenti. Arevalos, per esempio, lo trova, il contemporaneo, in tre lavori di Fausto Razzi, un autore considerato severo e che si rivela semplicemente rigoroso/fantasioso/aperto/propulsivo. Che piacere i punti sonori, le pause meditate, il disegno complessivo scheletrico in Musica per pianoforte del 1968! Perché dire che l’avanguardia è fredda? Questa è avanguardia, se vogliamo. Assomiglia a quella storica, le compete probabilmente un «neo». Webern e il Cage weberniano possono entrare in gioco. Razzi asciutto drammatico e godibile. Magico ’68, vien da dire.

Sui tasti e sulle corde (percosse, accarezzate) Per piano 2 del 1989. Un Razzi in cerca di più varietà timbrica. Contano, qui, le risonanze, i prolungamenti dei suoni. E il brano ha dapprima qualche tocco di trasognato, poi vi aumenta il tasso di violenza sonora. Ma il metodo è sempre lo stesso: si procede per suoni o blocchi di suoni autonomi, uno dopo l’altro. Razzi non è un trasformista. Riprende il discorso sempre da dove l’ha iniziato. Anche in Invenzione del 2008. La logica «puntillista arricchita» gli sembra sempre la più produttiva. Molto pedale, il motivo ricavato dal nome Bach che appare e scompare, spunti «tayloriani». Gran pezzo. E Arevalos grande interprete, accurato e rilassato.

Ma diventa un diavolo, Arevalos, un prestigiatore, un cantore dell’aleatorietà scenico-sonora quando tratta Novelletta di Sylvano Bussotti. Piovono palline da ping-pong sulle corde dello strumento, rimbalzano quando le corde vengono pizzicate o quando vengono scosse dalla percussione dei tasti, ne esce una dovizia di giochi da salotto estenuato e perverso. Memorabile. E l’Aldo Clementi di Blues, elaborato su frammenti di Thelonious Monk? Che cosa c’è di più contemporaneo? Frammenti accennati, trasformati e abbandonati. Arevalos regala anche un pensoso-essenziale Franco Oppo (Tre berceuses) e un gentile-composto Ennio Morricone (Quattro studi). Di Fabrizio Ottaviucci occorre chiedersi se è più un atleta da finale olimpica o un angelo sterminatore particolarmente ispirato.

Perché la parte centrale del brano di Alvin Curran For Cornelius è una prova di resistenza estrema e di estrema capacità di immersione nella materia musicale. Un «ostinato» interminabile, un continuum di accordi ribaditi per mantenere un pathos «insopportabile». Ma in apertura e in chiusura ci sono lente, malinconiche e cantabili divagazioni in memoria di Cardew. L’interprete Ottaviucci è sempre più un serissimo incantatore. Ci fa scoprire un prezioso Klaus Huber, svizzero novantenne trapiantato in Italia, singolare in Ein Hauch von Unzeit II. I «pianissimi» di suoni disposti come in un vuoto accogliente sono da compositore sommo. Ivan Vandor con Variazioni gioca sui contrasti tra intense meditazioni con ricordi viennesi del 900 e momentanee esplosioni. Era tempo che si potesse riascoltare questo compositore importante e un po’ clandestino.
Olimpico in altro modo è Ciro Longobardi, che apre il festival (3, 4, 5 giugno). È un gran virtuoso. Fa scorrere inappuntabile Autodafé di Michele dall’Ongaro, due Études Boréales e tre Études Australes di Ivan Fedele, Only connect di Stefano Scodanibbio, Ficciones di Andrea Cavallari e, infine, esplode inimitabile nelle polveri di suoni e negli acutissimi ribattuti di Salvatore Sciarrino. Tre titoli, Vivo volando, Non troppo lento, Leggero vivo dai Quattro notturni. Un super-genio è il suo interprete